22 dic 2006

“Se il gatto è il nome. il cane è l’opposto, il contro è?” Se non è già sufficiente svegliarsi con il mal di testa post sbornia. Figuratevi se la donna con cui dividete il letto vi pone questa domanda. Normale che l’unico suono in grado di uscire dalla mia bocca è: “Eh?” E la sua risposta repentina: “Ma che sei scemo? La zecca, Massi, o la pulce, se vuoi ti dico una cosa seria da contro-cultura?” L’aria è ancora appestata di uno strano fumo. Sono nudo e guardo il mio lombrico morto tra le gambe e mi chiedo se non dovesse, almeno per educazioni, alzarsi in piedi davanti a una donna.
“Una cosa da controcultura è il sostegno delle tradizioni popolari regionali folkloristiche a scapito dei grandi spettacoli di massa su modelli americani e reality show.” Mi dice guardandomi dritto negli occhi. E io continuo a pensare al mio pisello. Lo sguardo interdetto. Il problema per me non sono gli americani, ma quale sostanza impedisca al mio pisello di dimostrarsi educato. “Perché a me la controcultura mi sa di frasi da tossici?” Le chiedo, quasi dispiaciuto, sapendo che questo allontanerà ancora di più il momento del mio amplesso.
“Controcultura? Pensa alla cultura: vacanza, televisione, successo, bellezza, laurea, …”
“Ci sto pensando!”
“Per cultura intendiamo chiaramente quella di massa non istruzione e intelligenza, ho fame!”
Mi lascia così nudo come un verme su un letto in una casa che, ovviamente, ignoro di chi sia. Ma me ne sto là. In silenzio. Anzi. Urlo. “Sei andata a mangiare?” Continuo a guardarmi il pisello. Neanche davanti a un sedere che mi sculetta davanti reagisce. “Che dobbiamo fare?” Gli chiedo. “Che vogliamo fare?” Mi risponde. Per un attimo scuota la testa. Il mio pene mi risponde e mi risponde con la voce di donna? Riscuoto la testa. Francesca mi guarda appoggiata allo stipite della porta.
“Non parlavo con te.”
“No. Certo. Parlavi con il tuo pisello. Beviti una birra.”
Ancora alcol. E se fosse lei la sostanza colpevole, quantomeno indiziata?
“Che mangi?” Le chiedo invidioso. Ho fame, non voglio una birra. “82 calorie di barretta grancereali al cioccolato” Dice e aggiunge: “Controcultura sarebbe una carbonara alle 5 del pomeriggio.”
“Ma sono le cinque del pomeriggio?” La faccenda inizia a farsi intrigata. Il buco di memoria si aggira intorno alle 24 ore. “Porca troia, altro che contro cultura, mi sono fottuto il cervello!”
“Ne mangio mezza e 5 susine”
“L’altra mezza dammela a me!”
“A no cazzo le susine no... se vado avanti cosi' tra gli antibiotici e le susine mi fanno fare la pubblicità nuova dell'enterogermina…”
“Gli antibiotici?”
Anche lei avrà un buco di memoria quanto meno pari al mio. Guardo ancora il mio pisello. Ho scopato in queste ventiquattro ore. Lo capisco dalla sua tonalità di viola. La guardo. Lei non è rossa. O almeno non lo è dove dovrebbe. “Non l’abbiamo fatto?” Mi tira la mezza barretta. La mangio e la guardo. Mi porge una susina. Scuoto la testa. “Che vuoi un pompino?” Mi chiede all’improvviso. Scuoto la testa. “Controcultura?”
“Io non capisco perchè uno e in quest'uno ci metto tutti, o forse solo io, siamo sempre in attesa di qualcosa e non riusciamo a viverci il presente. Tipo io penso sempre alla Sardegna, invece sono qui in vacanza me la sguazzo e non capisco perchè non mi godo ‘sto momento invece di pensare sempre a cosa farò o dove andrò, poi mi pare idiota!”
È arrivato il momento dei discorsi seri. Francesca guarda il mio pisello floscio. Forse è arrivato il momento di non pensare a lui. Lo sfioro per vedere se ha qualche scossone. Almeno mi scappasse di pisciare avrei una buona scusa e invece.
“Lo dici a me che odio il presente e mi sembra che le cose siano sempre già finite.” O almeno mi sembra che tutto non inizi mai. Anche perché il passato non me lo ricordo. Non mi ricordo neanche chi mi sono trombato e deve essere stato da paura, se si rifiuta di rifarlo adesso.
“Bisogna far finta – dico - di essere felici sapendo che prima o poi la felcità arriverà!” Dio mio, le cazzate che riesco a dire. Eppure i suoi piccoli seni sono un invito irresistibile. Seduta a cavalcioni mi guarda. “Non credo.” Vorrebbe solo cogliere l’attimo in cui il mio pisello reagirà. Guardo la sua passera poggiata sul quella specie di cadavere. “E dove sarà?” Mi chiede. “Forse sarà in uno degli estremi.” Forse nell’unico estremo che ha veramente un senso. La morte. Una porta al piano di sotto sbatte forte. Francesca mi guarda complice dei miei pensieri: “C'è una pistola nel cassetto e 5000 dollari, sai cosa devi fare?” Non è una domanda a cui si deve rispondere. M’infilo i pantaloni. Non sparerei mai a qualcuno con il pisello di fuori. “Ammazza, Massi, ammazza! Un colpo secco!”

15 dic 2006

Piano piano si avvicina l’ora di tornare a casa. Dio mio!!!!! Sembra l’inizio di un tema delle elementari. Ma come fanno i professori a leggere quella roba senza vomitare per terra? Perché io ho sempre pensato che prendessero voti alti solo i temi più vomitevoli? Perché ho avuto sempre professori di italiano (anche se uno è indiscutibilmente da tirare fuori) così ottusi da non capire che gli stavano servendo il piatto che loro si aspettavano? Peccato non ci fosse mai un po’ di veleno.
La scuola è un concetto molto semplice: fa sempre e solo quello che ti viene detto di fare. I tuoi voti dipendono dalla tua faccia. Dal tuo modo di parlare. Dalla mimosa che lasci alla prof sulla scrivania. Dal carattere che si riflette nei tuoi occhi. Ecco. Se io avrò mai un figlio gli dirò: “Fai il bravo, fai quello che ti viene detto.”
Vorrei poter tornare indietro per scrivere parolacce nei temi. Scrivere tutto il mio odio verso quel mezzo culattone di Lorenzo. Per scrivere tutto il mio amore verso Lucia. Vorrei averla potuto rapire nella mia scrittura. Avrei voluto, all’interno di un tema, possederla “sulla poltrona di casa mia con il Rewind!” Avrei voluto esprimere dissenso nei confronti di Dante, D’Annunzio. Avrei voluto poter dire tante cose, ma mi è sempre stata negata la possibilità. Servire pesce lesso, quando nella mia dispensa ci sono lasagne, polpettoni, arrosti, cacciagione… Avrei voluto che la mia scrittura fosse un’avventura nel mare in tempesta e non le parole di una noiosa guida.
Se qualcuno sta ancora al liceo in fondo al suo tema scriva una bella nota. “Tutte le opinioni espresse in questo breve trattato dal titolo “…” sono il frutto della mia riflessione tranne dove indicato diversamente. Per questo mi sono permesso di omettere gli inutili e noiosi ‘secondo me’ e tutte le espressioni sinonime.” Poi fai una bella foto con annesso voto!!! Ti prego!!!!!! Sei un mito se lo fai!!!
C’è ancora da qualche parte un Holden? “Dear Mr. Spencer. That is all I know about the Egyptians. I can’t seem to get very interested in them although your lectures are very interesting. It is all right with me if you flunk me thought as I am flunking everything else except English anyway. Respectfully yours, Holden Caulfield.” Non esiste Holden.

14 dic 2006

Che idea! - Flaminio Maphia

G-Max:
Sono il re della serata, lo si vede dall'entrata
Si buttano ai miei piedi, tutte in tackle e scivolata
Con il rischio imprevisto, che me stuccano er menisco
Basta un disco e gia' sto pisto, con l'aiuto di un gin liscio
C'e' la mora c'e' la bionda, quella bassa alta o ricca
Ho un tatuaggio co la scritta, "Richard Gere me fai na pippa!"
Sulla pista indiavolata li' per li' l'ho strapazzata
L'ho lanciata riafferrata senza fiato l'ho lasciata
Tra le braccia m'e' cascata era cotta innamorata
Per i fianchi l'ho bloccata e ne ho fatto marmellata

Oh yeah, ..se dice cosi' no? e poi.. e poi..

Rit:
CHE IDEA!
Quale idea? non vedi che lei non ci sta
CHE IDEA!
Ma quale idea? E'maliziosa ma sapra'
Tenere a bada un superbullo buffo come te
E poi che avresti di speciale che in un altro no non c'e'
CHE IDEA!
Quale idea? Non vedi che lei non ci sta
CHE IDEA!
Ma quale idea? Attento lei lunga la sa
Lei ti fara' girare in tondo senza avere mai
Le cose che pretendi e scusa in fondo scusa tu che dai?

Rude MC:
Shekera i fianchi come Shakira
Sguardo attraente tipo vampira
Labbra carnose ibadabaduu
Sarai la mia Wilma dagli occhi blu
Buuuuum, shakalakalaka
Lei mi sorride forse l'ho rimorchiata
Eccomi arriva il conquistatore
E tu ti aprirai come un girasole
Da paiura sembri Yuma
A forza de ballà stai a fa la schiuma
La mischia invasa baby che pasa
Ridi che stasera te porto a casa

G-Max:
M'ha guardato l'ho guardata l'ho bloccata accarezzata
Sul visino suo di fata ma sembrava una patata
L'ho acchiappata l'ho frullata e ne ho fatto una frittata!

Oh yeah, ..se dice cosi' no? e poi.. e poi..

CHE IDEA!
Quale idea? non vedi che lei non ci sta
CHE IDEA!
Ma quale idea? E'maliziosa ma sapra'
Tenere a bada un superbullo buffo come te
E poi che avresti di speciale che in un altro no non c'e'
CHE IDEA!
Quale idea? Non vedi che lei non ci sta
CHE IDEA!
Ma quale idea? Attento lei lunga la sa
Lei ti fara' girare in tondo senza avere mai
Le cose che pretendi e scusa in fondo scusa tu che dai?

Balla, balla, balla, ...e dalla!

CHE IDEA!
Quale idea? non vedi che lei non ci sta
CHE IDEA!
Ma quale idea? E'maliziosa ma sapra'
Tenere a bada un superbullo buffo come te
E poi che avresti di speciale che in un altro no non c'e'
CHE IDEA!
Quale idea? Non vedi che lei non ci sta
CHE IDEA!
Ma quale idea? Attento lei lunga la sa
Lei ti fara' girare in tondo senza avere mai
Le cose che pretendi e scusa in fondo scusa tu che dai?

12 dic 2006

Oggi semplicemente non mi sono accorto che il giorno era iniziato. Ho continuato a dormire in attesa che il mio orologio biologico rintoccasse l’ora. In attesa che il silenzio della notte svanisse. In attesa che Morfeo mollasse la presa. Ma ho atteso invano.

A mezzogiorno mi sono inoltrato nel verde di Arlington. Arligton National Cemetery. Un monumento enorme alla morte. E non ho potuto fare a meno di iniziare una riflessione sul nero flagello. Sulla fine. Sul destino inevitabile. Eppure ci sono mille morti diverse.

Sopra una collina un anfiteatro fasciticamente bianco si apre sullo skyline di Washington. Una stele bianca è il monumento al milite ignoto. Unknown soldier. Un soldato fa avanti e indietro. Cercando di esprimere tutto il suo rispetto nella perfezione stilistica dei suoi gesti. Quasi maniacali. Ripetuti centinaia di volte. Avanti e indietro.

Riflessione che cerca di dare una spiegazione a tutte quelle morti. Wife. Daughter. Perdi il tuo nome per essere la moglie o la figlia di qualcuno che è deceduto in guerra. Che è spirato combattendo per un ideale. Ognuno si sceglie il suo e questi uomini si sono scelti il loro. Io lo chiamo: Libertà.

Per qualche ora divento filoamericano. Per qualche ora capisco quando qualcuno mi dice che delle persone hanno dato la loro vita per la mia libertà. Penso a cosa vuol dire essere morto partigiano. E mi chiedo quanto sono disposto a perdere la mia di libertà. Mi chiedo per quale donna sarei disposto a diventare il marito di. Non sono disposto a perdere la mia libertà. Preferisco essere quel soldato che fa avanti indietro per onorare qualcuno e non quel soldato che stanno portando dentro una tomba. Morto chissà dove. In Iraq immagino. Il corteo d’onore. La moglie e le figlie dietro una bara vestita con la bandiera. Dietro i genitori e poi dei militari. Degli alti ufficiali, credo. Le salve. E poi il silenzio militare. La tromba che suona da sola. Le stesse note uguali in tutto il mondo. O forse uguali in tutti i paesi occidentali.

Uno sciame di macchine è parcheggiato tutto intorno e un centinaio di persone si avvicinano alla chetichella per l’ultimo saluto. Turisti curiosi da lontano scattano foto. Fa caldo, ma io mi stringo dentro la giacca. Non c’è silenzio che risuoni dentro le mie orecchie. C’è solo sempre la stessa domanda. Perché? E allora torno a guardare il soldato che fa avanti e indietro. Seduto sul marmo bianco, guardo i segni neri lasciati dalle suole delle scarpe. Avrei voglia di spararmi musica nelle orecchie, ma lascio che siano i miei occhi ad essere protagonisti.

Oggi semplicemente non mi sono accorto che il giorno era iniziato. Ho continuato a dormire in attesa che il mio orologio biologico rintoccasse l’ora. In attesa che il silenzio della notte svanisse. In attesa che Morfeo mollasse la presa. Ma ho atteso invano.

A mezzogiorno mi sono inoltrato nel verde di Arlington. Arligton National Cemetery. Un monumento enorme alla morte. E non ho potuto fare a meno di iniziare una riflessione sul nero flagello. Sulla fine. Sul destino inevitabile. Eppure ci sono mille morti diverse.

Sopra una collina un anfiteatro fasciticamente bianco si apre sullo skyline di Washington. Una stele bianca è il monumento al milite ignoto. Unknown soldier. Un soldato fa avanti e indietro. Cercando di esprimere tutto il suo rispetto nella perfezione stilistica dei suoi gesti. Quasi maniacali. Ripetuti centinaia di volte. Avanti e indietro.

Riflessione che cerca di dare una spiegazione a tutte quelle morti. Wife. Daughter. Perdi il tuo nome per essere la moglie o la figlia di qualcuno che è deceduto in guerra. Che è spirato combattendo per un ideale. Ognuno si sceglie il suo e questi uomini si sono scelti il loro. Io lo chiamo: Libertà.

Per qualche ora divento filoamericano. Per qualche ora capisco quando qualcuno mi dice che delle persone hanno dato la loro vita per la mia libertà. Penso a cosa vuol dire essere morto partigiano. E mi chiedo quanto sono disposto a perdere la mia di libertà. Mi chiedo per quale donna sarei disposto a diventare il marito di. Non sono disposto a perdere la mia libertà. Preferisco essere quel soldato che fa avanti indietro per onorare qualcuno e non quel soldato che stanno portando dentro una tomba. Morto chissà dove. In Iraq immagino. Il corteo d’onore. La moglie e le figlie dietro una bara vestita con la bandiera. Dietro i genitori e poi dei militari. Degli alti ufficiali, credo. Le salve. E poi il silenzio militare. La tromba che suona da sola. Le stesse note uguali in tutto il mondo. O forse uguali in tutti i paesi occidentali.

Uno sciame di macchine è parcheggiato tutto intorno e un centinaio di persone si avvicinano alla chetichella per l’ultimo saluto. Turisti curiosi da lontano scattano foto. Fa caldo, ma io mi stringo dentro la giacca. Non c’è silenzio che risuoni dentro le mie orecchie. C’è solo sempre la stessa domanda. Perché? E allora torno a guardare il soldato che fa avanti e indietro. Seduto sul marmo bianco, guardo i segni neri lasciati dalle suole delle scarpe. Avrei voglia di spararmi musica nelle orecchie, ma lascio che siano i miei occhi ad essere protagonisti.

7 dic 2006

Sono ancora alla ricerca di una colonna sonora che mi accompagni mentre cammino attraverso queste strade. È arrivato il freddo. Quel freddo maledetto che ti congela le dita delle mani e non bastano neanche i guanti. Quel vento che ti costringe a nasconderti per non essere trasformato in una statua di ghiaccio. Speri che l’autobus sia già là ad aspettarti. Sei già pronto a bussare contro la porta, in attesa di nessuno.
Hip Hop è scomparso. Non solo dalle sale del Bethesda Cares, ma anche dai ricordi della gente che lavora qua dentro. Nessuno si preoccupa di nessuno. Il che è piuttosto strano visto il nome. Old man non ha niente da fare. Mi guarda mentre nuoto tra le carte. Mentre spulcio, leggo, colleziono e archivio. Dovrebbe telefonare a un tipo. Ma c’è tempo. Qua è già Natale. Old man è già vacanza. Si gratta il dito di una mano e sfoggia un cappellino da scozzese. Old man porta sempre gli stessi pantaloni. Di velluto. Beige. Chiude sempre il telefono prima che il suo interlocutore possa salutarlo. Old man odia che io usi Messenger. Sheila fa spallucce quando glielo dice. Old man ha la forfora.
Le babbione sono piuttosto allegre oggi. Ieri hanno incassato un sacco di soldi. “Give me money!” Motto piuttosto strano, ma efficace. Sue oggi fa il poliziotto nelle sale. Si sente la mancanza di Hip Hop. O almeno io la sento. Per qualche secondo guardo il mio compagno di scrivania. Potrebbe far finta di essere Sean Connery. Eppure ha qualcosa che non va. Il naso grosso da vecchio che si è scaccolato con il pollice per settanta anni. Gli occhi stanchi. La finta iperattività tipica da queste parti.
Torno al passaporto di una ragazza alla pari. Sorride con la bocca chiusa nella foto. È splendida. È dell’84. Sorride con la bocca chiusa. Vezzo? Spulcio velocemente le carte. C’è sempre un motivo dietro una foto così. Mi aspetto di trovare chissà cosa. Ma trovo solo una serie di cure dentali. Chissà se adesso sorride con la bocca aperta. La ragazza alla pari. Come dice sempre il buon Tom Cruise. Tutti scappano!
Old man fa finalmente la sua telefonata. Kebab. Tutto questo tempo per un po’ di Kebab? Adesso deve trovare qualcuno che lo va a prendere. Innalzo la pila di file e documenti tra me e lui. Io non vado. Non me lo chiede neanche. Cerca però di guardarmi attraverso la carta. Metto un altro faldone sulla pila. Io non vado. Non voglio puzzare di cipolla.
Nella mia sigaretta di mezza mattina mi intrattengo in una bellissima conversazione. Il mio interlocutore è un nero che fuma Marlboro rosse. “What? Hair? What? Hair?” Questa è l’unica cosa che ripete. E allora io rinuncio e ritorno come sempre a guardare la bionda parrucchiera che fa i capelli alle signore in vetrina. Ha sempre magliette nere. Tutti hanno magliette nere là dentro. Ma lei ha sempre magliette scollate. Le lascio un sorriso e torno a lavorare.

Redskins


5 dic 2006

You're beautiful - James Blunt
My life is brilliant. My life is brilliant. My love is pure. I saw an angel. Of that I'm sure. She smiled at me on the subway. She was with another man. But I won't lose no sleep on that, 'Cause I've got a plan. You're beautiful. You're beautiful. You're beautiful, it's true. I saw your face in a crowded place, And I don't know what to do, 'Cause I'll never be with you. Yeah, she caught my eye, As we walked on by. She could see from my face that I was, Fucking high, And I don't think that I'll see her again, But we shared a moment that will last till the end. You're beautiful. You're beautiful. You're beautiful, it's true. I saw your face in a crowded place, And I don't know what to do, 'Cause I'll never be with you. You're beautiful. You're beautiful. You're beautiful, it's true. There must be an angel with a smile on her face, When she thought up that I should be with you. But it's time to face the truth, I will never be with you!

4 dic 2006

Sono sempre le cose che vorrei che determinano il punto della situazione. Non conta dove sei, dove sei stato, dove sarai, ma conta dove vorresti essere, con chi. Qual è il punto nello spazio da cui calcoli le distanze. Qual è il colore che colora i tuoi sogni.
Può un semplice colore cambiare la tua vita?
Sei sempre stato quello che piscia contro un muro nel centro di Roma. Quello che la prima cosa che guarda è il sedere di una donna. Quello che beve due litri di birra. Quello che fuma una sigaretta ubriaco sull’argine del Tevere. Quello che va a dormire alle quattro e si sveglia all’una. Quello che i soldi servono a comprare libri. Quello che il silenzio serve a una donna per fare il suo dovere. Quello che viaggia in treno.
Poi all’improvviso un colore cambia la tua vita. Ma non è solo la sua bellezza. Bellezza che pensi di non aver mai conosciuto. Non è solo questo. Ma è la sua trasparenza. Come guardare attraverso un vetro. Attraverso un paio di occhiali. Le cose vecchie diventano nuove. Non solo nel loro significato.
E allora ci sono cose di cui non hai più voglia. Silenzi che ti scandalizzano. Sigarette che non vorresti aver mai fumato. Parole che non vuoi più aver detto. Ma soprattutto parole che vorresti avere il coraggio di dire. Per trovarti ancora una volta occhi negli occhi. E poter trovare quella sensazione di cui si parla nei libri.
Il problema vero è (o era) che io sono sempre stato innamorato del concetto “donna”. Per cui come un appassionato di moto trovi sempre qualcosa che ti attira. Quel particolare che nasconde la bellezza. Ma poi un giorno ti fermi e ti siedi. Non so spiegare come. Ma qualcosa cambia definitivamente e lasci che il tuo pensiero indugi. Indugi ancora. Ancora un’altra volta. E allora scappi. Hai paura che questa volta ti abbia proprio fregato.

Disco volante

1 dic 2006


Hip hop

Alcuni giorni ti rendi conto che c’è qualcosa di strano nell’aria. Le cime degli alberi si muovono appena. Il cielo promette tempesta. Promette di innaffiare tutto. Eppure fa caldo. Io cammino per le strade di Bethesda, Maryland con solo una felpa addosso. La gente ha lo sguardo basso di chi aspetta qualcosa che non arriverà.
Gli uffici del Bethesda Cares sembrano particolarmente bui. Sheila mi saluta da una finestra, con il sorriso di chi non ha ancora capito perché faccio la strada lunga ed entro dalla porta principale invece di tagliare per la porta si servizio. Il centro è crowed, come sempre quando sta per piovere.
Il mio amico Hip Hop mi promette che morirò per colpa di una sigaretta. Guardando il mozzicone che porta a spasso, ribatto: “you too!” C’è qualcosa di diverso nel suo sguardo. Ma da bravo volontario faccio finta niente è roba per assistenti sociali, non per me che viaggio tra le mansioni di magazziniere, archivista, segretaria, guardia di sicurezza, vedetta del fortino, tuttofare.
Anche dentro c’è qualcosa nell’aria. Old man è al telefono. Parla poco. Sue non c’è e neanche Barbara. Ma per quest’ultima è normale, è venerdì. La mia stanza sembra particolarmente ingombra. Sheila non viene ad impicciarsi. C’è qualcosa che non va oggi. Sistemo le sedie. Prendo cartelle e documenti su cui devo lavorare. Old man mi annuncia che tra few minutes se ne andrà. Lo guardo. Il problema è il suo non il mio. Invado tutto con le carte. Cerca di capire per quanto tempo ancora governerò su quella terra e per ribadire la mia posizione attiro a me tre sedie e le riempio di carte.
La finta calma dell’attesa si rompe. Hip Hop con una tazza di caffè si infila dentro l’ufficio di Sheila. Lascia la porta aperta, come sempre, ci tiene che sappiamo dov’è il suo problema. Ma oggi è più inquietante del solito. Urla. Una sola parola rimbalza ovunque nel silenzio che è sceso nella testa di tutti. Schizofrenico.
Hip Hop è la persona che stabilisce i turni di accesso all’ufficio di Sheila, l’assistente sociale. Lui è il re della zona degli homeless. Se qualcuno entra negli uffici senza il suo permesso, lo viene a prendere e se lo porta via. È l’unico senzatetto che può entrare in ufficio senza che tu debba staccare il tuo sguardo dallo schermo. A meno che non sia venuto per te. Per raccontarti qualcosa. È bipolare. Ma solo perché è troppo allegro per essere depresso come tutte le persone nelle sue condizioni.
Da quando aveva quattordici anni è stato due volte in centri per il recupero delle tossico dipendenze. Sa cosa vuol dire essere rinchiuso. Ho venti anni. Urla. Non vuole essere rinchiuso ancora una volta per colpa di un fucking doctor. Non vuole medicine che lo stordiscano. Sta bene così com’è. Lo guardo di spalle attraverso la porta.

29 nov 2006

Si viaggia per andare a trovare una fidanzata, per andare a vedere un museo, per socialità, per cultura, per ricongiungimento familiare, per incontrare una bionda al bar, per riposarsi, per fare sport estremi, per andare al mare, per farsi una sauna, per andare in montagna, per una scampagnata, per una sciata, per tornare a casa a Natale, per affari, per salvare il mondo, per salvare un povero pinguino, per perdere soldi a un casinò, per scappare da un carnefice, per leggere un libro in lingua originale e su una panchina originale, per guardare le stelle, per fare sesso, per commettere reati, per poi tornare a casa, per non tornare più a casa, per trovare un lavoro, per il silenzio del deserto, per un ginocchio che fa male, per una malattia che ti sta uccidendo, per andare da Dio, per raggiungere un santuario, per scrivere un libro, per sentire un concerto, per scendere due gradini, per salirne settecentocinquatasei, per stringere la mano alla gente per strada, per nascondersi dietro un sasso, per mangiare qualcosa di strano, per bere vino o birra,…
Se non dormi fuori casa neanche una notte non sei un viaggiatore. Sei un escursionista. Sei qualcuno che è tornato indietro troppo presto. Perché alla fine è sempre troppo presto per tornare a casa. C’è sempre qualcuno che aspetta. Ma c’è sempre qualcuno che non aspetta. C’è sempre il silenzio di un telefono che ha smesso di squillare e il frastuono di una chiamata mentre sei seduto a guardare il tempo che passa. A guardare il mondo che gira. A provare per un momento la sensazione che il mondo vada alla rovescia con i piedi al posto della testa.

27 nov 2006

Boston!!!!!!!!!!!!!






21 nov 2006

Nel blog ogni tanto bisognerebbe dire qualcosa di profondamente personale. Qualcosa che travalichi il senso comune del buongusto ed esprima qualcosa che è difficile comunicare in maniera diversa. Come il buon Chuck, chiacchierare allegramente del prolasso dell’intestino. Magari, come chiede Rambo, mettere una foto di qualche donnina discinta (se qualche donnina discinta volesse apparire basta postare a webmaster@leviatano.it, non troppo discinte perché mi arrestano, però almeno alziamo l’audience, e non solo). Bisognerebbe un sacco di cose. Potrei decidere di buttarmi sul porno. O forse sarebbe meglio l’horror. Forse basterebbe solo un po’ di pulp che porti via tutto il pochissimo senso rimasto. Bah! Rimarrebbe da citare Vasco Rossi e il gioco sarebbe finito.
Lascia stare tutto questo!!!! Lasciamo che il silenzio ogni tanto sia troppo violento per le orecchie. Lasciamo che tutto si trangugi dentro se stesso. Lasciamo che il cane mangi la sua stessa coda. Lasciamo che una donna ancora abbia voglia di mentire.
Non è facile passare in rassegna file e scoprire che qualcuno dell’ottantaquattro può drogarsi da quando ha quattordici anni. Ghigliottina che ti trasforma in un barbone senza neanche essere passato dal via. Senza neanche aver preso qualche soldino. Anzi qualche soldino lo hai preso perché prima lo hai rubato a tua madre. Poi lo hai rubato a chissà chi. Eppure vieni scarcerato perché c’è stato un mistake, un misunderstanding.
Non so perché, nella mia logica, allora, la soluzione è schiacciare questi micro-ricordi-records-files-nonsochecazzo nell’abisso della coscienza. I sistemi sono i soliti. Droga, alcol, sesso. Eh eh. E ritorna l’allegra ghigliottina che ti condanna ad essere un barbone pure a te. E allora è arrivata l’ora di smettere di pensare che il mondo voglia essere salvato. Forse Sheila, Sue e Barbara vorrebbero salvarlo. Ma il mangiafagioli? Gay-Spilungone? Pansa-guardatv?
Oggi mi si ghiacciavano le mani dal freddo. “Gosh! I’m freezing! Man!” Ho cercato di spiegare al simpatico autista filippino che aveva semplicemente deciso di lasciarmi ad aspettare il suo maledetto autobus su un marciapiede. Un barbone dormiva su una sedia con una giacca blu. Il mio amico Hip-Hop oggi non mi ha salutato. È bipolare. Oggi era il giorno della urla. Peccato! Lo sproloquio contro i girlscout cookies mi aveva divertito. Ma chissà quale è la sostanza di cui si fa. La mia amica eroina si è rimediata degli underwear neri. Birtorzolo oggi invece era strano, deve aver cambiato liquore. Ruttava che Dio la mandava. Old man era simpatico come al solito. Pantalone di velluto. Camicia a scacchi. Due giorni a settimana è seduto a un passo da me. Scrive lettere e telefona. Solo oggi si è accorto che è un mese che aggiorno quello stramaledetto archivio.

17 nov 2006

Il barbone elegante

Vorrei potervi raccontare questi rami spogli che vedo attraverso la finestra. Vorrei potervi raccontare l’amara combinazione di pietà e riso, mentre cerco di fare da traduttore per un tossico spagnolo. Vedere gli occhi preoccupati di chi ha camminato sotto la pioggia, ma non ha ottenuto niente. La sottile disperazione. La grottesca immagine del suo viso che passa tra la gioia di qualcuno che capisce quello che dici e la tristezza di non ricevere le risposte che cerchi. “Non chiedo tanto, chiedo solo un vestito per sentirmi ancora una volta un uomo.” Leggo tra le sue rughe, incise nelle pelle bruciata dal sole. Lo immagino affaticato in un campo del Sud America, tergersi il sudore. Adesso mi guarda. Come un bimbo impaurito che ha trovato finalmente qualcuno a cui affidarsi. Impregnato di alcol e sostanze non identificabili, traballa sulle gambe. Traballa nel suo sguardo.
Non so bene cosa debbano comunicare i miei occhi e lascio che passi quello che ho dentro. Guardo Sheila seduta nella scrivania. “Questo è quello che dice.” Un po’ sorride. Non sa se è il mio inglese o la faccia di quell’uomo a rendere poco credibili le frasi che aleggiano nell’aria, sospese e soppesate nei nostri cervelli per capire che risposta dare. Che risposta dargli. Guardo ancora Sheila, pensando: “che ti costa è solo una firma!” Sorride. Lei sa sempre quello che pensa la gente. E in un angolo verga il buono regalando a questo improbabile elegante barbone sudamericano, un altro vestito con giacca e pantaloni.
L’uomo guarda Sheila e poi guarda me. Per un attimo temo mi voglia baciare una mano. Ma fa una delle cose più belle che siano successe qua. Stringe a sé quel buono. Come fosse un figlio. Come chi finalmente possiede qualcosa di valore. E poi ci guarda, eroi nella sua vita per i prossimi venti secondi. E con una mano ci saluta. Con quel gesto strano che usa solo la Regina Elisabetta. Con il braccio piegato parallelo al corpo e le dita strette. Lo guardo attraverso il vetro dell’ufficio andar via. Scuoto la testa in una piccola risata e me ne torno a lavorare.

14 nov 2006

THE FART!

Il sole lentamente si fa spazio dentro la stanza. A fatica gli occhi si aprono. Il primo pensiero è sempre quello che ti chiede perché dovresti alzarti. Allora mi rotolo ancora un po’ nel letto, per tornare a trovare il filo rosso che mi riporta verso un sogno. Ma è ora di alzarmi. Velocemente doccia rigenerante. Calda. Così ho letto. Una doccia calda la mattina attiva i muscoli e il cervello. Il caldo dovrebbe portarsi via i resti del sonno, ma con me funziona poco. Di fare colazione non se ne parla, come sempre. Raccolgo le mie quattro cose. Cerco le chiavi di casa in ogni anfratto e sono pronto per andare. Sicuro? Ricontrollo le tasche.
L’ascensore ci mette sempre un sacco di tempo. Tre porte bianche senza indicazioni sopra. Una delle tre si apre a caso e tu ci salti dentro per scendere o salire. Dentro di me scommetto su quale arriverà prima. Il centrale. Dico sulle labbra. E, infatti, arriva quello di destra. Salgo dentro. L’ascensore è ampio. Dentro è tutto di simil legno. Un enorme specchio. Il soffitto di plastica e il pavimento sempre di plastica, ma marmorizzata.
Al quinto piano, io vivo al settimo, sale una bionda. Novanta chili. Forse cento. Per un metro e settanta cinque. Maglietta rossa scollata su un seno procace. Pantaloni beige. Schiaccia il pulsante per andare in garage. Nella mano destra a una fetta di torta stracolma di zucchero a velo. Nella sinistra un tovagliolo rosso da cui fa capolino un altro pezzo abbondante del dolce. Dentro di me penso: “Mangia un altro po’.”
Poi tutto succede rapidamente. Come si chiudono le porte, la bionda scoreggia. Ma non una sottile. Una piena. Con annesso movimento di chiappa per permettere la fuoriuscita gassosa. E poi? Un’altra. La mia faccia rimane impassibile. Giocatore di poker. Rimango impenetrabile. Come fosse normale. Lei assume la faccia di chi sta dicendo non sono stata io. Ma, amica mia, eravamo in due in là dentro. Se non stato io, sei stata tu.
Per fortuna gli ascensori in questo grande stato devono salire e scendere per decine di piano. Per cui i soli cinque che ci dividono da terra, se li beve di un fiato. Pochi secondi. Le porte si riaprono. Saluto e scappo fuori.

10 nov 2006

Autunno

Dipende da come dipingi il mondo. Penso all’autunno. I miei occhi corrono velocemente sul rosso delle foglie. L’arancio della felpa. Il viola della copertina del libro che sto studiando. Le righe della coperta, sottili fili di ruggine. Le striature mogano del mobile. Piccole pennellate nei quadri. Lascio che lentamente tutto questo si depositi dentro di me. Un bambino mescola i colori e crea uno specchio d’acqua marrone. Venature colorate rivelano l’unione da cui viene quella sorgente autunnale.
Per un momento sulle pareti candide e sulla moquette bianchissima scola questo enorme calderone arroventato. Piccole gocce color sangue venoso lasciano la scia dietro il piccolo infante che si trascina dietro il pensate fardello. Lo guardo mentre sono seduto in terra con le gambe incrociate.
L’autunno raccoglie manciate della poltiglia e le lancia contro la finestra. Ed io sono ancora a guardare. Sono ancora chiuso dentro di me. Lascio che tutto accada senza ribellarmi. Senza un urlo. Senza un singhiozzo. Come un vecchio monaco buddista lascio che le cose semplicemente siano.
Il calderone fumante di marrone si rovescia. Il bimbo si ritrae in un angolo, come scappasse dall’onda del mare. Tutto diventa monotono. Anche io d’improvviso divento del colore delle foglie e del vento le scuote.
Gli occhi del bimbo saettano nella stanza. Come cercasse una via d’uscita. Un respiro profondo. Un balzo. Vola verso di me. Poggia un piede leggerissimo sulla mia testa. E vola via fuori dalla finestra. Vola verso un azzurrissimo cielo terso. D’improvviso i miei occhi saettano da un azzurro all’altro. Il dorso di un libro. L’etichetta di una vasetto. La confezione della terra. La suola delle scarpe. Un simbolo sulla maglietta.
Il bimbo vola dentro la stanza e dipinge tutto. Ora giallo. Ora rosso. Ora verde. Ancora azzurro. Con le sue manine traccia impronte sul muro. Mi alzo in piedi. Sono vestito di bianco come un catecumeno. Raccolgo da terra un grande pennello. Mi avvicino all’enorme conca. Il celeste mi illumina il viso. Ma non è lui il colore che cercavo. Un po’ di bianco. Una punta di grigio. Uno sguardo dolce e benevolo che si posa su di me. Ecco l’azzurro che cercavo. Intingo. Seguendo il non senso del bimbo, semplicemente, imbratto tutta la stanza. Lasciando che le forme restino tali e le gocce cadano in terra.

6 nov 2006

Questa non so proprio da dove mi è uscita...

Noi siamo quelli che dovrebbero cambiare il mondo. Noi siamo quelli che se ne vanno in giro con le mani nelle tasche. Guardiamo il cielo nuvoloso, è speriamo che non piova. Noi siamo quelli che indossiamo vestiti colorati. Noi siamo quelli che non pieghiamo la testa davanti a nessun uomo, ma solo davanti a Dio. Siamo quelli che abbiamo sputato per terra. Noi siamo quelli che hanno visto in televisione cadere le torri gemelle. Il muro di Berlino. La statua di Saddam. Il comunismo. Noi siamo quelli che hanno visto morire Giovanni Paolo II e hanno smesso di avere un Papa.
Leggiamo il giornale su internet e libri sulla metro. Abbiamo vinto il mondiale di calcio cantando l’inno d’Italia 90. Ci sediamo su una panchina e aspettiamo un autobus. Abbiamo dovuto imparare a fare la doppietta per cambiare le marce. Noi siamo quelli che vorrebbero scrivere lettere d’amore. Siamo quelli che hanno imparato a memoria poesie. Siamo quelli che s’innamorarono di due splendidi occhi.
Però ad un certo punto ci siamo fermati. Abbiamo guardato i libri. Abbiamo guardato le preghiere. Abbiamo guardato le donne con cui abbiamo fatto l’amore. Abbiamo guardato i mozziconi di sigarette in terra. Le bottiglie vuote. I giorni persi a non fare niente. I giorni dentro l’università, la scuola. Abbiamo guardato le scarpe consumate dal camminare. Le vacanze. Il silenzio di una serata passata su di un muretto da soli, semplicemente ad aspettare qualcuno. Con le mani infilate nelle tasche per il freddo. Il naso e le orecchie ghiacciate. Semplicemente aspettare. Abbiamo guardato tutto questo e ce ne siamo chiesti il senso. E allora ci siamo fermati a scaldarci in un bar. E siamo ancora là dentro e guardiamo il mondo dalla vetrina.
Ma siamo felici di ballarvi sulla faccia, mentre cercate di sbirciare le cosce delle nostre donne. Mentre cercate di imitarci. Mentre mangiate avanzi dei vostri pasti. Mentre siete troppo giovani o troppo vecchi per fare l’amore. Mentre semplicemente noi ce ne stiamo lontano.

5 nov 2006

2 nov 2006

1 nov 2006

St. John Church

L’indirizzo è St. John Church 6701 Wisconsin avenue. O almeno è scritto così. L’appuntamento è alle nove e mezza e ovviamente non c’è nessuno. Faccio il giro della Chiesa. C’è una scuola. Provo ad infilarmi dentro, ma la porta è bloccata. Aspetto, qualcuno uscirà. Un vecchio si stana fuori da solo. Faccio per entrare. Ma mi fa notare che non si può e dovrò aspettare fuori il mio pargoletto. Faccio di sì con il capo e sorrido. Lo lascio credere. Rimango in attesa che svolti l’angolo. Riprovo la porta. Ma è ancora chiusa. Mi viene voglia di provare un codice a caso. Ma proseguo il giro.
Un’altra porta su cui campeggia la scritta Office appare sulla mia strada. Provo anche qua. Ma sono barricati dentro. Un cartello mi invita a suonare e a dire chi sono e che voglio. Busso. “May help you!” Nel mio accento italo e basta dico il mio nome. E poi blatero clots clos (la mia personale traduzione di magazzino di vestiti che mi sembra aver capito chiamino clothes closet). E tutto nella stessa specie di frase bethesda cares. Ottengo delle indicazioni per l’ennesima porta.
Una cosa che ho imparato è che negli stati occidentali i poveri devo sempre scendere un piano o almeno tre gradini.
C’è una scalinata esterna e buia che scende verso l’inferno. Nascosta dietro il parcheggio. Quelle con la muffetta scivolosa sopra. M’infilo là sotto e la porta è chiusa. Vorrei dargli una spallata. Torno su. E faccio finta di niente. Degli school bus si riempiono di ragazzini. Giallo canarino. I bus, non i ragazzini.
Aspetto e arriva una BMW. Vi ricordate il vecchio che giocava carte? L’asso di cuori? Ecco ha una BMW. Insieme a lui arriva un uomo nero alto. Vestito a caso. Mezzo frocio, probabilmente. Oh, scusate. Mi è scappato. Volevo dire. Con una velata tendenza omosessuale. Tanto che io, in perfetto italiano Dantesco, ho pensato. “Namo bene!”
Il nero vecchio mi affida all’altro, il nero frocio. Adesso so che sono razzista. Ma non so come chiamarli. Altra regola. Le persone che non sono della tua stessa tonalità non ti dicono come si chiamano. Comprano una BMW e se ne fottono.
Rimango sotto. Seduto per mezz’ora. A guardare lo spilungone che mette a posto. Altra regola. Le spilungone dice solo. Have a sit. Wait. Oppure parla da solo. Per cui non bisogna tentare di interagire sennò ti guarda per dire. Ma tu che c’entri? Scusate. Dice anche small, medium, large. Pocket e Candy. Qua il suo problema non è che tutto sia in ordine, ma che non ci siano caramelle nelle tasche.
Invece parlare con il vecchio è come tentare di parlare con un contadino ciociaro ubriaco. Mangia fagioli alla dieci di mattina. Non ho capito se è una colazione, un pranzo, un brunch o una merenda. Non lo chiedo, ho paura che me li offra. Li ha versati in una scodella con un liquido non identificato che probabilmente era là da un settimana. Scaldati nella latta e versati alla ben e meglio dentro quella specie di tazzona.
Il lavoro è facile. Prendi una busta. La apri. Se puzza la lasci allo spilungone, se profuma di bucato la frughi. Tutto ha un posto. In ogni busta ci sono cose simili. Perché vengono dalla famiglie. Se c’è un maglione grande. Saranno tutti grandi. Sul concetto di grande bisogna fare una digressione conclusiva.
Dimenticati la parola large. Nessuno di voi ha mai visto un maglione grande come quello che ho visto io. Un maglione da donna. All’inizio ero indeciso tra una veste, una coperta e una vestaglia molto strana. Lo spilungone mi guarda. Woman. Rimango basito. Mi indica chiaramente la zona dei maglioni. Scuoto il capo e lo appendo tra le giacche. Lo spilungone lo prende. One, two, three, four. E lo piega tra i maglioni da donna. Mi appoggio a uno scaffale. Basta così per oggi. È ora che torni a casa. Eleven thirty.

Un pò di vita italiana

30 ott 2006

Vita americana!

27 ott 2006

Poi all’improvviso ti ritrovi dentro un film.





Poi all’improvviso ti ritrovi dentro un film. Un film già visto. Dove i colori sfumano gli uni dentro gli altri. I grigi. I rossi. I colori smunti di insegne non illuminate dai raggi il sole. Una tazza di cartone bollente stretta tra le mani. Il nero del caffè che cerca di scaldarmi dentro. Per un momento sarebbe meglio se fosse giallo fosforescente. C’è bisogno di un colore in questa mattina dimenticata da Apollo.
8011 Old Georgetown Road. Bethesda. Christ Evangelical Lutheran Church. Una grande Chiesa lontana dal mondo. Ci arrivo con un piede malconcio per freddo e scarpe sbagliate. Ci arrivo con la vescica piena. Che devo pisciare è l’unica cosa certa. Apro una porta bianchissima e m’infilo dentro. Il primo istinto è quello di gridare. “C’è qualcuno?” Ma aspetto. Il tipico odore di mensa per poveri mi entra nel naso. Viene dal piano inferiore. Aspetto anche a scendere. Voglio vedere se c’è qualcun altro prima di affrontare un vecchio cuoco nero e incazzato.
Frugo il piano dove sono. Restroom. Mi avverte un’insegna. Forse non ho bisogno di una Chiesa, ma di un cesso. Guardo la porta e gli dico che sto arrivando. Devo essere sicuro che sul piano non ci sia nessuno. Non puoi uscire da un bagno e dire: “Massimiliano, nice to meet you!” Non puoi decisamente presentarti a qualcuno che ti sta aspettando tirandoti su i pantaloni. O cercando di rinfilarci dentro la camicia.
Da qualche parte c’è una specie di asilo. Fuori bimbi giocano e ci sono disegni alle pareti. Case. Perché diamine i bimbi disegnano case? Una ragazza nera spinge un piccolissimo kid bianco come il latte.
Questo piano è completamente vuoto. Do un occhio alle scale che salgono e vado di corsa a pisciare. Uscendo mi rendo conto che la porta di fronte al bagno è un enorme sala addobbata per riti sacri protestanti. Chissà se questo suolo è stato benedetto. D’istinto cerco il tabernacolo. Ma qua non c’è Gesù, almeno non come sono abituato a vederlo.
M’infilo al piano di sotto. Qualcuno mi aspetta. O almeno dovrebbe. Apro la porta da cui viene il pessimo odore di cibo americano cucinato male. Dietro, un enorme sala da pranzo vuota. Tavoli apparecchiati male. Una palco con un sipario aperto. Per un momento sorrido. Le mense per i poveri sono uguali in ogni angolo del mondo. Sulla sinistra quattro ragazzi mangiano aiutati dai volontari. Qualcun altro guarda la televisione. Un enorme uomo nero senza distogliere lo sguardo dallo schermo mi grida. “May I help u, man!” Perché non mettono un punto interrogativo alla fine delle frasi. Mi presento e mi spiego. Almeno cerco di spiegarmi.
Mi ritrovo con un foglietto in mano con su scritto un indirizzo. Un volontariato che comincia lunedì e un magazzino di vestiti che mi aspetta. Prendo le mie pive. Le rificco dentro un sacco. E me ne ritorno in superficie. Un asso di cuori mi è rimasto impresso nella retina. Un vecchio giocava a carte. Lunedì lui ti aspetterà al magazzino. Mi ha detto il grande uomo nero mentre cercava di ricordarsi come si scrive Church in inglese e io lo guardavo perplesso. Il vecchio che gioca a carte mi aspetterà. C’è sempre qualcuno che mi aspetta.
Nei film tutte le mattina sorge il sole. Ma qua il sole oggi si è dimenticato di sorgere. Si è dimenticato di scaldarmi le ossa. Di asciugare le strade dalla brina. Oggi il sole si è dimenticato di someone. Sì, di quel qualcuno. Come quale? Quello che ha bloccato la metro. “Someone has jumped on the track in Bethesda Station.” Quello che mi ha costretto a imprecare. “This train don’t stop at Bethesda station.” Mezz’ora di autobus contro due minuti scarsi di metropolitana. Neanche il tempo di sedermi. Neanche il tempo di capire che stai ancora viaggio. Perché stai sempre viaggiando. E il film lentamente cambia trama, genere e storia. E rischia di diventare ancora una volta una commedia se non stai attento. E diventa ancora una volta una tragedia se sei là pronto a cogliere i segni. Ma io preferisco che diventi balle spaziali. E mi guardo l’ennesimo sedere, che il buon Dio ha creato per miei occhi, salutarmi scodinzolando.

25 ott 2006

“Freedom is not free.”





“Freedom is not free.” Parole che fremono dentro di me mentre cammino intorno a un piccolo lago chiamato Tidal Basin a un passo dal fiume Potomac. Gli alberi sono bassi e carichi di foglie rosse, gialle e marroni. Autunno che già sta esplodendo. Come dentro di me cerca di esplodere il significato di queste quattro parole. A me che avevano insegnato che la mia libertà è un dono dato da Dio, mi ritrovo davanti a uomini che sono morti per la libertà. Per la mia? Non certo per la loro, costretti ad essere rappresentati da statue di metalli imprecisati, scolpiti da imprecisi scalpellini.
Torno a casa. Metro. Un tossico preferirebbe scendere dentro la galleria. Sbatte i pugni sulla porta. “Hallo, hallo!” Urla. Nessuno si preoccupa più di tanto. Un uomo sposta la sua bicicletta. Due donne dietro di me parlano male degli italiani. Una nera di origini imprecisate e una tedesca. Io faccio finta di niente.
Scappo via velocemente dalla stazione. Sfondo di film americano con sparatoria e una macchina che vola giù dalle scale. Scale mobili. Lunghissime. Decido di camminarle. Una roscia è parallela a me, anche lei cammina. Alla mia stessa altezza. Alla mia stessa velocità. Mi fermo per frugarmi le tasche alla ricerca dell’orario degli autobus. Anche lei si ferma. La guardo e rido. Fa finta di niente. Riprendo la mia salita e così lei. La lascio passare avanti a me. Prendo un’altra strada, senza però non dedicare un attimo all’analisi di un sedere americano.
“No freeman shall be taken, imprisoned,...or in any other way destroyed...except by the lawful judgment of his peers, or by the law of the land. To no one will we sell, to none will we deny or delay, right or justice.”
La terra della giustizia. Degli enormi edifici finti. Degli edifici cavi. Dentro la maestosità del Jefferson ci sono i bagni e un gift shop. Jefferson è nero. Cioè lui è bianco, ma la sua statua è nera. Jefferson è morto. Oddio. Un attimo di panico. Vado a pisciare sotto, nella lobby del Memorial. Ogni memorial ha una lobby? Vado a pisciare. E mentre piscio penso. Questi sono tutti morti. I soldati, i presidenti. Da qualche parte c’era anche una iscrizione sulle donne. Morte pure loro. Questo è un enorme cimitero per la memoria. Questi sono monumenti morti. Ma morti per quale motivo?
“No person shall...be deprived of life, liberty, or property, without due process of law.”
Guardo fisso una ragazza che mi viene dall’altra parte lungo la sponda di questo lago finto americano. Per qualche secondo dimentico che in queste terre non sono abituati ai romani guardoni. Ai romani che non lasciano passare neanche una donna. I Romani che hanno conquistato tutto il mondo conosciuto. Vorrei gridarlo per un momento. Ma sto guardando una ragazza. Ha una guida in mano. È una turista. Un barbaro. Chissà come ci si sente a diventare da conquistati a conquistatori. Ripenso alle due donne che insultavano l’Italia nella metro. Loro, che non appartengono né al vecchio né al nuovo continente, hanno capito una cosa che io ancora fatico a capire.
“We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness.”

24 ott 2006

US CITIZEN


Un piccolo regalino per te!!!!
L'avrò catturato? Rimarrà vivo due mesi?



12 set 2006

È necessario tornare alle origini. È necessario capire quali sentimenti smuovano l’essere umano. È necessario capire perché le cose accadano. È necessario rendersi conto.

17 ago 2006

Ancora in Sicilia


Alcune foto siciliane


La mia prossima fidanzata?

29 lug 2006

23 lug 2006

“Ma chi sei?”

“Ma chi sei?” Queste parole mi frullano nel cervello, mentre la guardo parlare. L’acqua mi aiuta a galleggiare mentre l’alcol e il cibo vorrebbero trascinarmi sul fondo della piscina. Come sono entrato in quella festa, mi hanno messo in mano un bicchiere di spumante che ho tracannato velocemente con l’idea di mettermi subito in pari con gli altri e anche un po’ più avanti. Ma il tavolo di superalcolici quasi finiti mi suggerisce che forse devo accelerare il ritmo.La guardo dritto negli. Non ascolto molto quello che dice, ma cerco di pensare a chi possa essere. Rovisto nella memoria. Cerco di immaginare i suoi capelli lunghi come debbano essere quando sono asciutti. I suoi piccoli seni nascosti in una maglietta. Ma niente proprio. Il mio cervello non ne vuole sapere.
Qualcuno galleggia su una ciambella ci dice qualcosa. Io rido perché devo farlo, ma non ho capito. Lei ride. Ma ride di una risata d’intesa. Non capisco. Non importa. Tre pensieri nella testa. Due piuttosto semplici. Bisogni primari. Sigarette e un altro bicchiere di qualsiasi cosa. Per seguire questi discorsi bisogna stordirsi ancora di più. Il terzo pensiero è sempre legato a questa ragazza che ho davanti. Chi sei? Ma più esattamente come sei? Il corpo è nascosto nell’acqua. Il viso sorride. Piacevole. Boh! Non lo so. Mai avventurarsi in lande sconosciute da ubriachi. Un antico detto russo recita. Non esistono donne brutte, dipende quanto vodka bevi. E io di vodka ne avevo bevuta abbastanza da credere che avrei potuto mollare tutto e andarmene a surfare per il resto della vita.
Le parole scorrono. “Esco un attimo.” Mi tiro fuori dall’acqua e fumo avidamente una sigaretta che si bagna più velocemente di quanto io riesca ad aspirare. Ci vuole un tuffo. Di quelli fatti bene. Non di quelli a “bomba” che ho fatto fino ad adesso per fare casino. Uno di testa. Con il corpo teso. Un piccolo respiro e mi slancio. L’alcol non aiuta le gambe si piegano un po’, ma le braccia tese in avanti mi trascinano dritto nell’acqua. Non mi sono mai piaciuti quelli che i tuffano e rischiano di dare una facciata sul fondo. No. Mi piace entrare a pelo dell’acqua e rimanere in apnea lasciando che il mio corpo avanzi per la spinta della mie gambe. Nuoto qualche metro sotto un metro di acqua in mezzo a mille gambe. Risalgo lungo il bordo e mi poggio con le braccia per riposarmi. Chissà dove è finita quella ragazza.

8 giu 2006

Io ballo!!!

Lo stretching serve per allentare la tensione dentro i miei muscoli. Il retropalco è poco illuminato e affollato da ballerini. Lo stretching serve per allentare la tensione dentro di me. Mi hanno insegnato a ripetere i gesti che dovrò fare come in un sogno. La musica. Il ritmo. Lascio che scorra dentro di me, ma non riesco a immaginare me stessa.
Un odore pungente di mare. Un bambino mi guarda e ride. Il sole è già basso sull’orizzonte. Un macchinetta fotografica scatta foto all’impazzata. Il divertente dei bimbi è che sfilano e posano spontaneamente, senza rendersi conto che qualcuno ruba la loro immagine, qualcuno cerca di rubare la loro anima. Come tutti gli sguardi che mi sono addosso mentre ballo.
La concentrazione è massima. Con una mano appoggiata sulla quinta e con l’altra che tira una caviglia, cerco il sentimento che voglio portare sul palco insieme a te. L’emozione che vorrei scagliare sulla gente che è lì che mi guarda. Perché non voglio essere solo un sedere che scodinzola. Voglio essere le viscere che hanno dato la vita a quel bimbo dagli occhi come i miei. Voglio essere i libri che ho letto di notte. Voglio essere il sonno che ho dentro di me mentre a scuola ascolto un professore che parla. Voglio essere il viso di mia mamma. Voglio essere…
I fari m’imperlano la fronte. Il vestito stretto sfrega la mia pelle. Ma lascio che tutto vada. Che il ritmo mi porti. Non c’è bisogno di memoria. Ho provato questi passi all’infinito. Mentre il mio corpo ripete i gesti, il mio cervello corre su una spiaggia. Una risata. “Mamma!” Con le sue gambe corte non riesce a starmi dietro, ma ci sono momenti in cui devo lasciarmi andare, devo lasciare che la vita mi porti via. Si ferma e mi guarda con quei suoi occhietti. Altri due passi. Allungo le braccia e lo faccio ruotare in aria.
Un ballerino mi tiene per le anche e mi fa ruotare velocemente. Mentre io distendo al massimo tutte le mie estremità. Volo come un angelo. Come un bambino. E sorrido anche se avrei voglia di ridere a crepapelle. Sono al sicuro lassù. Sono io che vortico. Sono io nel cielo.
Buio.

5 giu 2006

Mugello.

La vita, a volte, prende tinte incredibili di azzurro. Che diventa il giallo di una moto lanciata ai trecento all’ora. Il nero dell’asfalto. Il nero del sonno. 700 km. Fino in Toscana e indietro in un solo giorno. Ho visto le moto correre. Ho preso il sole seduto in macchina. Ho studiato Gandhi e l’inquinamento atmosferico, dei mari e quello acustico. Monossido di carbonio. Particelle sospese. Idrocarburi. Fosfati. E quant’altro.
Guardavo la notte da dietro il volante. Niccolò semplicemente dormiva lasciandosi trasportare. Pensavo a Valentino Rossi che se ne va via dentro un elicottero, mentre io sono qua attaccato al mio volante. Mentre io lascio scorrere una lingua di cemento sotto le mie gomme. Con il leggero ronzio di un motore moderno. Con il leggero silenzio di un bambino che dorme. E sogna di esserci lui su quella moto lanciata per tutto il circuito.
Samarcanda. La guerra è finita. Bruciano le divise. Eppure c’è un viso che mi guarda in mezzo alla folla. Un viso nero di una donna cattiva. Bisogna andar via, correre ancora. Lasciare che un destriero giallo come il lampo mi porti via lontano. Giallo come una moto. Giallo come la macchina che immagino di guidare. Perché di notte la carrozzeria può essere di qualsiasi colore.
Giallo come il colore della vita. Giallo perché tutto quello che è giallo è una figata. Giallo come il colore con cui dipingerei la mia vita. Ma anche un po’ di azzurro. Come la tonalità che ha preso domenica la mia vita. Quella tonalità di azzurro cielo sereno, con macchie di nero. Cirri. Cumuli. Nembostrati. Stratocumuli. Striature o pois. Smagliature. Imperfezione. Come sbagliare una curva e finire quinti.
700 km. E l’unico desiderio, l’unico che mi avanza nella testa, è tornare a casa stravolto e trovare qualcuno che ti ama e ti dica. “Come è andata?” “Sono troppo stanco ne parliamo domani.”




2 giu 2006

Clikkami!!!!

29 mag 2006

0% affinità?


Ecco a voi le donne!!!

io: magari sono bello come Brad Pitt
kiara: nn mi interessa
io: magari sono ricco come bill gates
kiara: qst mi interesserebbe di + ...
io: posso dire una cosa volgare?
kiara: si
io: magari ce l'ho lungo come un boa
kiara: nn mi interessa...
io: tra soldi, bellezze e pisello, preferisci i soldi?
kiara: diciamo ke le prime due le trovi + facilmente e la terza è 1 pò + difficilmente
io: quindi se io fossi ricco da fare schifo ci verresti con me?
kiara:nn lo so, ma il mio piano è cazzeggiare fino a 3o anni e poi sposarmi uno ricco...
io: ottimo piano
kiara: grazie
io: prego, solo che per realizzarlo devi essere gnocca
kiara:no, basta essere affacsinante...
io: no, devi essere gnocca
Kiara: mi trovo uno 1 pò ceco...me lo rigiro km mi pare e poi me lo sposo

20 mag 2006

Gli altri soffrono in salita e Invan Basso ride....

Questa è una di quelle lettere che non si leggono velocemente. È una di quelle che stampi e te la porti dietro. Magari sei in macchina con qualcuno che guida. Silenzio per la fatica del giorno. Guardi fuori dal finestrino e tiri fuori quel foglio che hai piegato in quattro. Finalmente hai qualche minuto per leggere. Oppure te la porti dietro appena stampata. La leggi al tavolo mentre fai colazione. Dopo che hai raccolto le cose che ti piacciono di più dal buffet dell’ennesimo albergo. La leggi mentre giri il cucchiaino nella tazza.
Domenica 14 maggio. Arrivo di tappa: Passo Lanciano. Subito nella testa mi si è aperta una voragine di pensieri. Di ricordi. Un nome improvvisamente riapre un mondo di passeggiate, di salite. Di montagne. Avevo una quindicina d’anni quando passavo alcuni giorni d’estate a godermi l’aria buona in quei boschi. Passo Lanciano. Non posso non andare. Conosco quelle curve come le scale di casa mia.
La domanda che puntualmente ti viene posta mentre prepari lo zaino è: “Perché ci vai?” Perché fare quattrocentocinquanta chilometri e passa tra andate e ritorno, arrampicarsi per una lunghissima salita, solo per vedere “dieci secondi di tappa”? La risposta prima di andare è difficile. Ma quando torni diventa facile. Non ho fatto tutta la strada per vedere dieci secondi tappa, ma per urlare a pieni polmoni: “Vola Falco!” E dura molto meno di dieci secondi. Per quell’istante in cui Savoldelli è al massimo dello sforzo e sembra aver sentito. Sembra essere contento per un solo istante. Ecco perché.
A colazione mangi qualcosa, ma non troppo. Poi ti metti in macchina. Inizia il viaggio. Inizia sempre qualcosa che ti aspetti ma non conosci e non sai questa volta come arriverà. Cosa succederà. Con chi chiacchiererai per ammazzare l’attesa. Con chi scambierai opinioni. A chi urlerai per sapere i risultati delle partite. Qualcuno si girerà e ti dirà: “il Falco è in fuga, è solo, ha staccato tutti.” Questo immagini mentre l’asfalto dell’autostrada scorre sotto la tua macchina.
Inutile dilungarsi sul resto. Tutto si riduce a quando i corridori arrivano. Mi sono piazzato ai duecentocinquanta. Per un motivo molto semplice. Ho pensato: “quando guardo le tappe, chi invidio di più?” Mi sono piazzato ai duecentocinquanta. Abbastanza vicino all’arrivo da vedere chi alza le braccia. Abbastanza vicino alla curva da non capire subito chi sta arrivando. Abbastanza vicino alla curva da sperare che la voce sbagli e sia il Falco a spuntare. Dal lato stretto della curva. Perché i corridori si avvicinano per tagliare. E posso far sentire la mia voce.
Vola Falco.
Perché poi chi se ne frega di come è arrivato. Era là a un metro da me. Io ero felice mentre facevo la strada a piedi per tornare a casa. Mentre m’infilavo nei sentieri di montagna per tagliare la strada principale. Chi se ne frega. In fondo sono felice che Basso abbia vinto. In fondo sono felice di aver visto i corridori. Anche quelli che hanno fatto più fatica. Di aver visto le ammiraglie. I giornalisti. La gente. Di aver respirato aria.
Mentre sei in macchina. Spunta uno striscione con scritto arrivo. Nell’aria. Sospeso al nulla. Alzi le braccia. Hai vinto. Hai vinto con Basso. Hai vinto col Falco. Non prendetemi in giro. Non sto dicendo che Basso ci rappresenta tutti o cose così. Io tifo con tutto il mio DNA Paolo. Ma la strada che ho percorso. La fatica per salire in cima e per tornare indietro è pari a quella dei ciclisti. Quando entri a casa. Mangi e crolli a letto.
Ivan se hai uno sponsor sulla maglietta è perché anch’io faccio la tappa, la prossima volta regalami il cappellino!