12 dic 2006

Oggi semplicemente non mi sono accorto che il giorno era iniziato. Ho continuato a dormire in attesa che il mio orologio biologico rintoccasse l’ora. In attesa che il silenzio della notte svanisse. In attesa che Morfeo mollasse la presa. Ma ho atteso invano.

A mezzogiorno mi sono inoltrato nel verde di Arlington. Arligton National Cemetery. Un monumento enorme alla morte. E non ho potuto fare a meno di iniziare una riflessione sul nero flagello. Sulla fine. Sul destino inevitabile. Eppure ci sono mille morti diverse.

Sopra una collina un anfiteatro fasciticamente bianco si apre sullo skyline di Washington. Una stele bianca è il monumento al milite ignoto. Unknown soldier. Un soldato fa avanti e indietro. Cercando di esprimere tutto il suo rispetto nella perfezione stilistica dei suoi gesti. Quasi maniacali. Ripetuti centinaia di volte. Avanti e indietro.

Riflessione che cerca di dare una spiegazione a tutte quelle morti. Wife. Daughter. Perdi il tuo nome per essere la moglie o la figlia di qualcuno che è deceduto in guerra. Che è spirato combattendo per un ideale. Ognuno si sceglie il suo e questi uomini si sono scelti il loro. Io lo chiamo: Libertà.

Per qualche ora divento filoamericano. Per qualche ora capisco quando qualcuno mi dice che delle persone hanno dato la loro vita per la mia libertà. Penso a cosa vuol dire essere morto partigiano. E mi chiedo quanto sono disposto a perdere la mia di libertà. Mi chiedo per quale donna sarei disposto a diventare il marito di. Non sono disposto a perdere la mia libertà. Preferisco essere quel soldato che fa avanti indietro per onorare qualcuno e non quel soldato che stanno portando dentro una tomba. Morto chissà dove. In Iraq immagino. Il corteo d’onore. La moglie e le figlie dietro una bara vestita con la bandiera. Dietro i genitori e poi dei militari. Degli alti ufficiali, credo. Le salve. E poi il silenzio militare. La tromba che suona da sola. Le stesse note uguali in tutto il mondo. O forse uguali in tutti i paesi occidentali.

Uno sciame di macchine è parcheggiato tutto intorno e un centinaio di persone si avvicinano alla chetichella per l’ultimo saluto. Turisti curiosi da lontano scattano foto. Fa caldo, ma io mi stringo dentro la giacca. Non c’è silenzio che risuoni dentro le mie orecchie. C’è solo sempre la stessa domanda. Perché? E allora torno a guardare il soldato che fa avanti e indietro. Seduto sul marmo bianco, guardo i segni neri lasciati dalle suole delle scarpe. Avrei voglia di spararmi musica nelle orecchie, ma lascio che siano i miei occhi ad essere protagonisti.

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