29 nov 2006

Si viaggia per andare a trovare una fidanzata, per andare a vedere un museo, per socialità, per cultura, per ricongiungimento familiare, per incontrare una bionda al bar, per riposarsi, per fare sport estremi, per andare al mare, per farsi una sauna, per andare in montagna, per una scampagnata, per una sciata, per tornare a casa a Natale, per affari, per salvare il mondo, per salvare un povero pinguino, per perdere soldi a un casinò, per scappare da un carnefice, per leggere un libro in lingua originale e su una panchina originale, per guardare le stelle, per fare sesso, per commettere reati, per poi tornare a casa, per non tornare più a casa, per trovare un lavoro, per il silenzio del deserto, per un ginocchio che fa male, per una malattia che ti sta uccidendo, per andare da Dio, per raggiungere un santuario, per scrivere un libro, per sentire un concerto, per scendere due gradini, per salirne settecentocinquatasei, per stringere la mano alla gente per strada, per nascondersi dietro un sasso, per mangiare qualcosa di strano, per bere vino o birra,…
Se non dormi fuori casa neanche una notte non sei un viaggiatore. Sei un escursionista. Sei qualcuno che è tornato indietro troppo presto. Perché alla fine è sempre troppo presto per tornare a casa. C’è sempre qualcuno che aspetta. Ma c’è sempre qualcuno che non aspetta. C’è sempre il silenzio di un telefono che ha smesso di squillare e il frastuono di una chiamata mentre sei seduto a guardare il tempo che passa. A guardare il mondo che gira. A provare per un momento la sensazione che il mondo vada alla rovescia con i piedi al posto della testa.

27 nov 2006

Boston!!!!!!!!!!!!!






21 nov 2006

Nel blog ogni tanto bisognerebbe dire qualcosa di profondamente personale. Qualcosa che travalichi il senso comune del buongusto ed esprima qualcosa che è difficile comunicare in maniera diversa. Come il buon Chuck, chiacchierare allegramente del prolasso dell’intestino. Magari, come chiede Rambo, mettere una foto di qualche donnina discinta (se qualche donnina discinta volesse apparire basta postare a webmaster@leviatano.it, non troppo discinte perché mi arrestano, però almeno alziamo l’audience, e non solo). Bisognerebbe un sacco di cose. Potrei decidere di buttarmi sul porno. O forse sarebbe meglio l’horror. Forse basterebbe solo un po’ di pulp che porti via tutto il pochissimo senso rimasto. Bah! Rimarrebbe da citare Vasco Rossi e il gioco sarebbe finito.
Lascia stare tutto questo!!!! Lasciamo che il silenzio ogni tanto sia troppo violento per le orecchie. Lasciamo che tutto si trangugi dentro se stesso. Lasciamo che il cane mangi la sua stessa coda. Lasciamo che una donna ancora abbia voglia di mentire.
Non è facile passare in rassegna file e scoprire che qualcuno dell’ottantaquattro può drogarsi da quando ha quattordici anni. Ghigliottina che ti trasforma in un barbone senza neanche essere passato dal via. Senza neanche aver preso qualche soldino. Anzi qualche soldino lo hai preso perché prima lo hai rubato a tua madre. Poi lo hai rubato a chissà chi. Eppure vieni scarcerato perché c’è stato un mistake, un misunderstanding.
Non so perché, nella mia logica, allora, la soluzione è schiacciare questi micro-ricordi-records-files-nonsochecazzo nell’abisso della coscienza. I sistemi sono i soliti. Droga, alcol, sesso. Eh eh. E ritorna l’allegra ghigliottina che ti condanna ad essere un barbone pure a te. E allora è arrivata l’ora di smettere di pensare che il mondo voglia essere salvato. Forse Sheila, Sue e Barbara vorrebbero salvarlo. Ma il mangiafagioli? Gay-Spilungone? Pansa-guardatv?
Oggi mi si ghiacciavano le mani dal freddo. “Gosh! I’m freezing! Man!” Ho cercato di spiegare al simpatico autista filippino che aveva semplicemente deciso di lasciarmi ad aspettare il suo maledetto autobus su un marciapiede. Un barbone dormiva su una sedia con una giacca blu. Il mio amico Hip-Hop oggi non mi ha salutato. È bipolare. Oggi era il giorno della urla. Peccato! Lo sproloquio contro i girlscout cookies mi aveva divertito. Ma chissà quale è la sostanza di cui si fa. La mia amica eroina si è rimediata degli underwear neri. Birtorzolo oggi invece era strano, deve aver cambiato liquore. Ruttava che Dio la mandava. Old man era simpatico come al solito. Pantalone di velluto. Camicia a scacchi. Due giorni a settimana è seduto a un passo da me. Scrive lettere e telefona. Solo oggi si è accorto che è un mese che aggiorno quello stramaledetto archivio.

17 nov 2006

Il barbone elegante

Vorrei potervi raccontare questi rami spogli che vedo attraverso la finestra. Vorrei potervi raccontare l’amara combinazione di pietà e riso, mentre cerco di fare da traduttore per un tossico spagnolo. Vedere gli occhi preoccupati di chi ha camminato sotto la pioggia, ma non ha ottenuto niente. La sottile disperazione. La grottesca immagine del suo viso che passa tra la gioia di qualcuno che capisce quello che dici e la tristezza di non ricevere le risposte che cerchi. “Non chiedo tanto, chiedo solo un vestito per sentirmi ancora una volta un uomo.” Leggo tra le sue rughe, incise nelle pelle bruciata dal sole. Lo immagino affaticato in un campo del Sud America, tergersi il sudore. Adesso mi guarda. Come un bimbo impaurito che ha trovato finalmente qualcuno a cui affidarsi. Impregnato di alcol e sostanze non identificabili, traballa sulle gambe. Traballa nel suo sguardo.
Non so bene cosa debbano comunicare i miei occhi e lascio che passi quello che ho dentro. Guardo Sheila seduta nella scrivania. “Questo è quello che dice.” Un po’ sorride. Non sa se è il mio inglese o la faccia di quell’uomo a rendere poco credibili le frasi che aleggiano nell’aria, sospese e soppesate nei nostri cervelli per capire che risposta dare. Che risposta dargli. Guardo ancora Sheila, pensando: “che ti costa è solo una firma!” Sorride. Lei sa sempre quello che pensa la gente. E in un angolo verga il buono regalando a questo improbabile elegante barbone sudamericano, un altro vestito con giacca e pantaloni.
L’uomo guarda Sheila e poi guarda me. Per un attimo temo mi voglia baciare una mano. Ma fa una delle cose più belle che siano successe qua. Stringe a sé quel buono. Come fosse un figlio. Come chi finalmente possiede qualcosa di valore. E poi ci guarda, eroi nella sua vita per i prossimi venti secondi. E con una mano ci saluta. Con quel gesto strano che usa solo la Regina Elisabetta. Con il braccio piegato parallelo al corpo e le dita strette. Lo guardo attraverso il vetro dell’ufficio andar via. Scuoto la testa in una piccola risata e me ne torno a lavorare.

14 nov 2006

THE FART!

Il sole lentamente si fa spazio dentro la stanza. A fatica gli occhi si aprono. Il primo pensiero è sempre quello che ti chiede perché dovresti alzarti. Allora mi rotolo ancora un po’ nel letto, per tornare a trovare il filo rosso che mi riporta verso un sogno. Ma è ora di alzarmi. Velocemente doccia rigenerante. Calda. Così ho letto. Una doccia calda la mattina attiva i muscoli e il cervello. Il caldo dovrebbe portarsi via i resti del sonno, ma con me funziona poco. Di fare colazione non se ne parla, come sempre. Raccolgo le mie quattro cose. Cerco le chiavi di casa in ogni anfratto e sono pronto per andare. Sicuro? Ricontrollo le tasche.
L’ascensore ci mette sempre un sacco di tempo. Tre porte bianche senza indicazioni sopra. Una delle tre si apre a caso e tu ci salti dentro per scendere o salire. Dentro di me scommetto su quale arriverà prima. Il centrale. Dico sulle labbra. E, infatti, arriva quello di destra. Salgo dentro. L’ascensore è ampio. Dentro è tutto di simil legno. Un enorme specchio. Il soffitto di plastica e il pavimento sempre di plastica, ma marmorizzata.
Al quinto piano, io vivo al settimo, sale una bionda. Novanta chili. Forse cento. Per un metro e settanta cinque. Maglietta rossa scollata su un seno procace. Pantaloni beige. Schiaccia il pulsante per andare in garage. Nella mano destra a una fetta di torta stracolma di zucchero a velo. Nella sinistra un tovagliolo rosso da cui fa capolino un altro pezzo abbondante del dolce. Dentro di me penso: “Mangia un altro po’.”
Poi tutto succede rapidamente. Come si chiudono le porte, la bionda scoreggia. Ma non una sottile. Una piena. Con annesso movimento di chiappa per permettere la fuoriuscita gassosa. E poi? Un’altra. La mia faccia rimane impassibile. Giocatore di poker. Rimango impenetrabile. Come fosse normale. Lei assume la faccia di chi sta dicendo non sono stata io. Ma, amica mia, eravamo in due in là dentro. Se non stato io, sei stata tu.
Per fortuna gli ascensori in questo grande stato devono salire e scendere per decine di piano. Per cui i soli cinque che ci dividono da terra, se li beve di un fiato. Pochi secondi. Le porte si riaprono. Saluto e scappo fuori.

10 nov 2006

Autunno

Dipende da come dipingi il mondo. Penso all’autunno. I miei occhi corrono velocemente sul rosso delle foglie. L’arancio della felpa. Il viola della copertina del libro che sto studiando. Le righe della coperta, sottili fili di ruggine. Le striature mogano del mobile. Piccole pennellate nei quadri. Lascio che lentamente tutto questo si depositi dentro di me. Un bambino mescola i colori e crea uno specchio d’acqua marrone. Venature colorate rivelano l’unione da cui viene quella sorgente autunnale.
Per un momento sulle pareti candide e sulla moquette bianchissima scola questo enorme calderone arroventato. Piccole gocce color sangue venoso lasciano la scia dietro il piccolo infante che si trascina dietro il pensate fardello. Lo guardo mentre sono seduto in terra con le gambe incrociate.
L’autunno raccoglie manciate della poltiglia e le lancia contro la finestra. Ed io sono ancora a guardare. Sono ancora chiuso dentro di me. Lascio che tutto accada senza ribellarmi. Senza un urlo. Senza un singhiozzo. Come un vecchio monaco buddista lascio che le cose semplicemente siano.
Il calderone fumante di marrone si rovescia. Il bimbo si ritrae in un angolo, come scappasse dall’onda del mare. Tutto diventa monotono. Anche io d’improvviso divento del colore delle foglie e del vento le scuote.
Gli occhi del bimbo saettano nella stanza. Come cercasse una via d’uscita. Un respiro profondo. Un balzo. Vola verso di me. Poggia un piede leggerissimo sulla mia testa. E vola via fuori dalla finestra. Vola verso un azzurrissimo cielo terso. D’improvviso i miei occhi saettano da un azzurro all’altro. Il dorso di un libro. L’etichetta di una vasetto. La confezione della terra. La suola delle scarpe. Un simbolo sulla maglietta.
Il bimbo vola dentro la stanza e dipinge tutto. Ora giallo. Ora rosso. Ora verde. Ancora azzurro. Con le sue manine traccia impronte sul muro. Mi alzo in piedi. Sono vestito di bianco come un catecumeno. Raccolgo da terra un grande pennello. Mi avvicino all’enorme conca. Il celeste mi illumina il viso. Ma non è lui il colore che cercavo. Un po’ di bianco. Una punta di grigio. Uno sguardo dolce e benevolo che si posa su di me. Ecco l’azzurro che cercavo. Intingo. Seguendo il non senso del bimbo, semplicemente, imbratto tutta la stanza. Lasciando che le forme restino tali e le gocce cadano in terra.

6 nov 2006

Questa non so proprio da dove mi è uscita...

Noi siamo quelli che dovrebbero cambiare il mondo. Noi siamo quelli che se ne vanno in giro con le mani nelle tasche. Guardiamo il cielo nuvoloso, è speriamo che non piova. Noi siamo quelli che indossiamo vestiti colorati. Noi siamo quelli che non pieghiamo la testa davanti a nessun uomo, ma solo davanti a Dio. Siamo quelli che abbiamo sputato per terra. Noi siamo quelli che hanno visto in televisione cadere le torri gemelle. Il muro di Berlino. La statua di Saddam. Il comunismo. Noi siamo quelli che hanno visto morire Giovanni Paolo II e hanno smesso di avere un Papa.
Leggiamo il giornale su internet e libri sulla metro. Abbiamo vinto il mondiale di calcio cantando l’inno d’Italia 90. Ci sediamo su una panchina e aspettiamo un autobus. Abbiamo dovuto imparare a fare la doppietta per cambiare le marce. Noi siamo quelli che vorrebbero scrivere lettere d’amore. Siamo quelli che hanno imparato a memoria poesie. Siamo quelli che s’innamorarono di due splendidi occhi.
Però ad un certo punto ci siamo fermati. Abbiamo guardato i libri. Abbiamo guardato le preghiere. Abbiamo guardato le donne con cui abbiamo fatto l’amore. Abbiamo guardato i mozziconi di sigarette in terra. Le bottiglie vuote. I giorni persi a non fare niente. I giorni dentro l’università, la scuola. Abbiamo guardato le scarpe consumate dal camminare. Le vacanze. Il silenzio di una serata passata su di un muretto da soli, semplicemente ad aspettare qualcuno. Con le mani infilate nelle tasche per il freddo. Il naso e le orecchie ghiacciate. Semplicemente aspettare. Abbiamo guardato tutto questo e ce ne siamo chiesti il senso. E allora ci siamo fermati a scaldarci in un bar. E siamo ancora là dentro e guardiamo il mondo dalla vetrina.
Ma siamo felici di ballarvi sulla faccia, mentre cercate di sbirciare le cosce delle nostre donne. Mentre cercate di imitarci. Mentre mangiate avanzi dei vostri pasti. Mentre siete troppo giovani o troppo vecchi per fare l’amore. Mentre semplicemente noi ce ne stiamo lontano.

5 nov 2006

2 nov 2006

1 nov 2006

St. John Church

L’indirizzo è St. John Church 6701 Wisconsin avenue. O almeno è scritto così. L’appuntamento è alle nove e mezza e ovviamente non c’è nessuno. Faccio il giro della Chiesa. C’è una scuola. Provo ad infilarmi dentro, ma la porta è bloccata. Aspetto, qualcuno uscirà. Un vecchio si stana fuori da solo. Faccio per entrare. Ma mi fa notare che non si può e dovrò aspettare fuori il mio pargoletto. Faccio di sì con il capo e sorrido. Lo lascio credere. Rimango in attesa che svolti l’angolo. Riprovo la porta. Ma è ancora chiusa. Mi viene voglia di provare un codice a caso. Ma proseguo il giro.
Un’altra porta su cui campeggia la scritta Office appare sulla mia strada. Provo anche qua. Ma sono barricati dentro. Un cartello mi invita a suonare e a dire chi sono e che voglio. Busso. “May help you!” Nel mio accento italo e basta dico il mio nome. E poi blatero clots clos (la mia personale traduzione di magazzino di vestiti che mi sembra aver capito chiamino clothes closet). E tutto nella stessa specie di frase bethesda cares. Ottengo delle indicazioni per l’ennesima porta.
Una cosa che ho imparato è che negli stati occidentali i poveri devo sempre scendere un piano o almeno tre gradini.
C’è una scalinata esterna e buia che scende verso l’inferno. Nascosta dietro il parcheggio. Quelle con la muffetta scivolosa sopra. M’infilo là sotto e la porta è chiusa. Vorrei dargli una spallata. Torno su. E faccio finta di niente. Degli school bus si riempiono di ragazzini. Giallo canarino. I bus, non i ragazzini.
Aspetto e arriva una BMW. Vi ricordate il vecchio che giocava carte? L’asso di cuori? Ecco ha una BMW. Insieme a lui arriva un uomo nero alto. Vestito a caso. Mezzo frocio, probabilmente. Oh, scusate. Mi è scappato. Volevo dire. Con una velata tendenza omosessuale. Tanto che io, in perfetto italiano Dantesco, ho pensato. “Namo bene!”
Il nero vecchio mi affida all’altro, il nero frocio. Adesso so che sono razzista. Ma non so come chiamarli. Altra regola. Le persone che non sono della tua stessa tonalità non ti dicono come si chiamano. Comprano una BMW e se ne fottono.
Rimango sotto. Seduto per mezz’ora. A guardare lo spilungone che mette a posto. Altra regola. Le spilungone dice solo. Have a sit. Wait. Oppure parla da solo. Per cui non bisogna tentare di interagire sennò ti guarda per dire. Ma tu che c’entri? Scusate. Dice anche small, medium, large. Pocket e Candy. Qua il suo problema non è che tutto sia in ordine, ma che non ci siano caramelle nelle tasche.
Invece parlare con il vecchio è come tentare di parlare con un contadino ciociaro ubriaco. Mangia fagioli alla dieci di mattina. Non ho capito se è una colazione, un pranzo, un brunch o una merenda. Non lo chiedo, ho paura che me li offra. Li ha versati in una scodella con un liquido non identificato che probabilmente era là da un settimana. Scaldati nella latta e versati alla ben e meglio dentro quella specie di tazzona.
Il lavoro è facile. Prendi una busta. La apri. Se puzza la lasci allo spilungone, se profuma di bucato la frughi. Tutto ha un posto. In ogni busta ci sono cose simili. Perché vengono dalla famiglie. Se c’è un maglione grande. Saranno tutti grandi. Sul concetto di grande bisogna fare una digressione conclusiva.
Dimenticati la parola large. Nessuno di voi ha mai visto un maglione grande come quello che ho visto io. Un maglione da donna. All’inizio ero indeciso tra una veste, una coperta e una vestaglia molto strana. Lo spilungone mi guarda. Woman. Rimango basito. Mi indica chiaramente la zona dei maglioni. Scuoto il capo e lo appendo tra le giacche. Lo spilungone lo prende. One, two, three, four. E lo piega tra i maglioni da donna. Mi appoggio a uno scaffale. Basta così per oggi. È ora che torni a casa. Eleven thirty.

Un pò di vita italiana