29 set 2005

Soldato

Una macchinetta a gettoni, questo è quello che la gente pensa che io sia. Me ne sto tranquillo a casa quando apro questo vecchio e caro blog e leggo Elena che chiede un altro racconto. Cara mia secondo te io un racconto dove lo trovo? Forse crescono sotto i cavoli? Non è che le storie sono bimbi che scorrazzano per un giardino e tu gli gridi: “Vieni qua!” E loro con la loro brava tuta sporca di terra vengono e ti chiedono cosa vuoi. Non funziona così.
Una volta. Qualche anno fa. Insomma qualche anno fa. Era il 1915. Il mio nome era Gaetano. Lo so che adesso la povera Elena sta pensando: “no, il tuo nome è Massimiliano.” Lo so bene il mio nome. Ma il Dna prima era dentro mio padre, poi dentro mio nonno e poi dentro il mio bisnonno ed ecco che mi chiamo Gaetano. Ero il mio amatissimo bisnonno, immerso completamente dentro il Dna della mia famiglia.
Dicevo. Avevo deciso che non sarei andato in guerra. Adesso questo è un argomento grosso. Solo la parola guerra fa tremare le meningi di molta gente. La parola morte è il sinonimo più vicino. Come la parola silenzio che ci ricorda il vuoto degli sguardi delle persone rapite. Le foto dei giornali. La televisione. E io ero pacifista. Insomma, ero pacifista quanto lo è uno che ha paura di morire. Ma non è che avessi esattamente paura di morire. Era pronto ad affrontare la guerra. Una mattina mentre mi guardavo allo specchio con il pennello in mano per fare la barba mi sono detto: “Ma vale la pena che io muoia?” Parliamoci chiaro, io sono uno di quelli che non muore, ma mettermi in mezzo alle pallottole che ti fischiano nelle orecchie mi sembrava veramente eccessivo.
Mi sposo! Idea brillante. E poi la parte migliore. E qui Elena scopri una cosa che non sai. Fare un figlio che mi avrebbe trattenuto a casa. Sì, lattina, i figli si fanno. Non stanno con le storie sotto un cavolo. Un figlio sarebbe stato il piccolo miracolo che mi avrebbe salvato e trovare una donna, per me, sarebbe stato pure troppo facile, siamo sempre stati belli in famiglia.
Ma quegli statisti matti fecero tutto troppo in fretta e io mi ritrovai con una moglie, un figlio in arrivo e una lettera di chiamata alle armi. Gli occhi di una donna che lacrimano leggermente quando arriva quella maledetta cartolina. Che se l’avete vista fa anche un po’ pena. C’è scritto l’essenziale su una carta grigia. Cara Elena ecco la parte triste della storia. Una bacio sulla pancia della mia donna. Uno sulle sue labbra. La sacca sulle spalle e uno sguardo verso chissà dove e la fantasia già su un treno pieno di soldati che tornano a casa e cantano.
La guerra. Non è come la descrivono. Scarpe scomode. Fango. Una camerata di dialetti diversi che cantano canzoni che non hai mai sentito prima, che ti ritrovi sulle labbra mentre pulisci per la centoduesima volta il tuo fucile. La divisa verde. Che poi a me il verde mi è sempre stato male addosso. Il silenzio militare. La sveglia militare. Una tromba che suona e che detta i tuoi tempi. Le mille lettere e tu aspetti sempre la stessa notizia.
Un giorno. Era febbraio. Lo ricordo bene faceva molto freddo. Una lettera su carta bianchissima. La calligrafia tondeggiante. Solo a guardarla ho gridato: “è nato!” Di corsa dal capitano. “Una licenza!” Ma non era tempo di licenze. Secondo loro era tempo di guerra, ma per me no. Sapevo che i miei vestiti da borghese mi sarebbero serviti. Vestito come per andare al bar lasciai la caserma. Un treno, anche troppo veloce mi portava verso quel piccolo figlio che mi aspettava.
Era quasi marzo ormai. Ero a Roma. Ero nella mia città. Nella mia aria. Incredibile come le case, le strade, la gente sono sempre uguali. Due colpi lenti sulla porta e poi tre veloci. “È Gaetano.” Il mio biglietto da visita. Sulla porta c’era lei con il piccolo Pietro che mi guardava. “Ciao.” Giusto il tempo di mangiare qualcosa come solo la mamma sa cucinare. Giusto il tempo di mettermi in tasca una sua foto di trenta giorni ed ero in cella di rigore.
Ecco, cara Elena, dove volevo arrivare. Massimo della pena senza nessun tribunale. Vuol dire 45 giorni di cella di rigore. Vuol dire che dopo si torna in guerra. Scappare per tuo figlio non è un reato da tribunale, ma devono farti capire che non si fa. Ecco Elena. 15 giorni a pane e acqua. 30 a minestra. Da solo nel buio di un gabbiotto che chiamano cella. Che con la mia testa avrei potuto tirarlo giù a capocciate. Invece me ne sono stato là tranquillo a pensare. A immaginare storie che poi qualcuno scriverà.
Ecco, cara Elena, dove nascono le storie. Da una follia che ti ricorda che sei vivo. Un bimbo che piange nelle tue orecchie attraverso una fotografia. Un treno che ti porta via. Un bicchiere di vino e una risata dentro la tua casa. Con i tuoi. Ecco dove sono.

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