25 set 2005

Non ero proprio abituato. Non ero mai stato al centro dell’attenzione. Settimo di nove fratelli. Quando ero piccolo passavo intere giornate nascosto nel piccolo balcone della lavanderia. Portavo con me la mia vecchia giacca azzurra. Giacca che già aveva affrontato lunghi inverni gelidi sulle spalle dei miei fratelli. Mi ci nascondevo sotto. Respiravo meno che potevo. Nessuno si sarebbe accorto della mia assenza.
Una casa con nove fratelli maschi è una specie di colonia costante. C’è sempre qualcuno contento che urla o qualcuno infelice che piange. C’è sempre qualcuno che è stato lasciato, che è stato sconfitto, che è andato male a un compito in classe o che ha perso del denaro. C’è sempre qualcuno che ha una motivazione migliore per rimanere al centro dell’attenzione, mentre te ne stai nascosto sotto una giacca.
Ero così timido che mi vergognavo anche di parlare a tavola davanti ai miei fratelli. Mi era permesso di mangiare sotto il tavolo. Andavo in bagno di notte mentre gli altri dormivano. A volte per non sentirli respirare mi addormentavo in salone. Mi rannicchiavo su una poltrona, credevo di non meritarmi un divano. E dormivo là. Quando dormivo in salone mi concedevo di russare. Russavo forte. Così forte che mi madre mi veniva ad accarezzare la testa. E io, anche se ero sveglio, continuavo a russare forte. Mia madre piangeva. Ero un figlio strano. Ero l’unico di nove fratelli che non sapeva fare un bel niente.
In quel momento mi ritrovavo in piedi. Davanti a trecento persone in silenzio. La sala buia un unico faro puntato su di me. Il cartellone all’ingresso recitava: “Matteo Salieri legge le sue parole.” Avevo poco più di vent’anni e avevo scritto un libro. Non un libro qualsiasi. “Le storie di un bimbo nascosto sotto una giacca”. L’avevo scritto ed era piaciuto. La gente lo leggeva seduta su una poltrona dentro la propria casa e per qualche motivo a me sconosciuto lo consigliava ad altre persone. Era un libro che piaceva.
Ero in piedi davanti a trecento persone che si aspettavano che iniziassi a leggere. In prima fila mia madre e mio padre. Il mio editore. I miei fratelli. Mia sorella Maria aveva portato con sé un suo fidanzato. Dario, credo questo fosse il nome. Una specie d’artista con i capelli lunghi, i jeans dentro gli stivali e una giacca troppo stretta per lui.
Tutti seduti in fila. Uno affianco all’altro. Tutti col naso all’insù. Tutti che volevano sentire per la prima volta la mia voce. La mia voce che narrava, raccontava le mirabolanti storie partorite dalla mia fantasia.
Tutto era iniziato quando mio padre un Natale non sapeva cosa regalarmi. Ero l’unico di nove fratelli che non scriveva la letterina a Babbo Natale. Non sapevo se anch’io ne avessi il diritto. Nessuno mai mi aveva chiesto di farlo e io, semplicemente, non lo facevo. Venne in piena notte. Una di quelle notti che dormivo in salone. Aprì la porta. “Lo so che sei sveglio”. Mi tirai su sulla poltrona, lo guardai negli occhi. Stavo russando come poteva sapere che ero sveglio? “Ho visto una macchina da scrivere nel negozio qua sotto, la vuoi una macchina da scrivere?” In quel momento non capivo bene cosa avrei dovuto farmene di una macchina da scrivere, avevo dodici anni. “Allora la vuoi?” Un attimo di riflessione. “Qualcosa dovrai pur volere…” Qualcosa dovevo volere, ma non sapevo cosa volessi. “La maestra dice che scrivi tanto bene e tua mamma piange quando legge le tue cose.” Lo disse come se non volesse che io sapessi. Non che la mamma piangeva. Lei piangeva anche mentre si lavava i denti. No. Che anche lui piangeva. Che piangeva mentre pensava a quel figlio strano che scriveva meglio di lui. Che piangeva mentre leggeva quelle storie nascoste dietro il mobile dei vestiti. Anche il colonnello piangeva. Anche il colonnello aveva un cuore. Anche il colonnello era dispiaciuto mentre era costretto a schiaffeggiarlo.
“Allora la vuoi?” Non c’era bisogno di parlare. Con lui non c’era mai bisogno di parlare. Certo che la volevo. Certo che volevo quella del negozio sotto casa. Qualcosa. Sapevo fare anch’io. Non sapevo parlare, recitare, giocare a pallone, arrampicarmi sugli alberi. Non ero mai tornato a casa pestato o sporco di fango. Poche donne si sarebbero innamorate di me. Ma finalmente anch’io ufficialmente sapevo fare qualcosa. Anche se non ebbi mai il diritto di tenere la mia macchina da scrivere sulla scrivania. Scrissi tutto sotto il letto, sotto il mio letto. Sulla coperta che Maria mi aveva regalato, tanto lei ne aveva una nuova.
Dietro quel pulpito mi tremavano le gambe. Mi sudavano le mani. E il faro puntato su di me m’imperlava la fronte. Ancora non sapevo come avrei attaccato la prima parola. Sottovoce. Leggermente urlata, per risvegliare la gente dal loro torpore.

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