5 nov 2005

Buadelaire, vecchio amico, torno da te.

Era una notte come tante altre. Una di quelle notti in cui il cielo grave e basso pesa come un coperchio sulla mia anima. Gemente. Che piange sopita in lunghi affanni. Un nero intenso più di mille notti m’ingoia e mi nasconde, versato sulla mia testa. La terra diventa un cella umida di muffe e la Speranza, sbattendo la sua timida ala, picchia la testa contro i fradici soffitti come un pipistrello cieco. La pioggia mi rinchiude, ancora, nella sua vasta prigione d’infinite sbarre e un popolo silenzioso d’infiniti ragni intesse tele nel fondo del nostro cervello. Ed ecco all’improvviso il suono furioso delle campane. Sale verso il cielo un urlo atroce di spiriti senza casa, patria, che piangono senza sosta.
Ed ecco lunghi funerali. Senza tamburi, né musica. Sfilano dentro la mia anima:  la Speranza, sconfitta, piange e l’atroce Angoscia, despota, pianta sul mio cranio il suo vessillo nero.

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