30 ott 2006

Vita americana!

27 ott 2006

Poi all’improvviso ti ritrovi dentro un film.





Poi all’improvviso ti ritrovi dentro un film. Un film già visto. Dove i colori sfumano gli uni dentro gli altri. I grigi. I rossi. I colori smunti di insegne non illuminate dai raggi il sole. Una tazza di cartone bollente stretta tra le mani. Il nero del caffè che cerca di scaldarmi dentro. Per un momento sarebbe meglio se fosse giallo fosforescente. C’è bisogno di un colore in questa mattina dimenticata da Apollo.
8011 Old Georgetown Road. Bethesda. Christ Evangelical Lutheran Church. Una grande Chiesa lontana dal mondo. Ci arrivo con un piede malconcio per freddo e scarpe sbagliate. Ci arrivo con la vescica piena. Che devo pisciare è l’unica cosa certa. Apro una porta bianchissima e m’infilo dentro. Il primo istinto è quello di gridare. “C’è qualcuno?” Ma aspetto. Il tipico odore di mensa per poveri mi entra nel naso. Viene dal piano inferiore. Aspetto anche a scendere. Voglio vedere se c’è qualcun altro prima di affrontare un vecchio cuoco nero e incazzato.
Frugo il piano dove sono. Restroom. Mi avverte un’insegna. Forse non ho bisogno di una Chiesa, ma di un cesso. Guardo la porta e gli dico che sto arrivando. Devo essere sicuro che sul piano non ci sia nessuno. Non puoi uscire da un bagno e dire: “Massimiliano, nice to meet you!” Non puoi decisamente presentarti a qualcuno che ti sta aspettando tirandoti su i pantaloni. O cercando di rinfilarci dentro la camicia.
Da qualche parte c’è una specie di asilo. Fuori bimbi giocano e ci sono disegni alle pareti. Case. Perché diamine i bimbi disegnano case? Una ragazza nera spinge un piccolissimo kid bianco come il latte.
Questo piano è completamente vuoto. Do un occhio alle scale che salgono e vado di corsa a pisciare. Uscendo mi rendo conto che la porta di fronte al bagno è un enorme sala addobbata per riti sacri protestanti. Chissà se questo suolo è stato benedetto. D’istinto cerco il tabernacolo. Ma qua non c’è Gesù, almeno non come sono abituato a vederlo.
M’infilo al piano di sotto. Qualcuno mi aspetta. O almeno dovrebbe. Apro la porta da cui viene il pessimo odore di cibo americano cucinato male. Dietro, un enorme sala da pranzo vuota. Tavoli apparecchiati male. Una palco con un sipario aperto. Per un momento sorrido. Le mense per i poveri sono uguali in ogni angolo del mondo. Sulla sinistra quattro ragazzi mangiano aiutati dai volontari. Qualcun altro guarda la televisione. Un enorme uomo nero senza distogliere lo sguardo dallo schermo mi grida. “May I help u, man!” Perché non mettono un punto interrogativo alla fine delle frasi. Mi presento e mi spiego. Almeno cerco di spiegarmi.
Mi ritrovo con un foglietto in mano con su scritto un indirizzo. Un volontariato che comincia lunedì e un magazzino di vestiti che mi aspetta. Prendo le mie pive. Le rificco dentro un sacco. E me ne ritorno in superficie. Un asso di cuori mi è rimasto impresso nella retina. Un vecchio giocava a carte. Lunedì lui ti aspetterà al magazzino. Mi ha detto il grande uomo nero mentre cercava di ricordarsi come si scrive Church in inglese e io lo guardavo perplesso. Il vecchio che gioca a carte mi aspetterà. C’è sempre qualcuno che mi aspetta.
Nei film tutte le mattina sorge il sole. Ma qua il sole oggi si è dimenticato di sorgere. Si è dimenticato di scaldarmi le ossa. Di asciugare le strade dalla brina. Oggi il sole si è dimenticato di someone. Sì, di quel qualcuno. Come quale? Quello che ha bloccato la metro. “Someone has jumped on the track in Bethesda Station.” Quello che mi ha costretto a imprecare. “This train don’t stop at Bethesda station.” Mezz’ora di autobus contro due minuti scarsi di metropolitana. Neanche il tempo di sedermi. Neanche il tempo di capire che stai ancora viaggio. Perché stai sempre viaggiando. E il film lentamente cambia trama, genere e storia. E rischia di diventare ancora una volta una commedia se non stai attento. E diventa ancora una volta una tragedia se sei là pronto a cogliere i segni. Ma io preferisco che diventi balle spaziali. E mi guardo l’ennesimo sedere, che il buon Dio ha creato per miei occhi, salutarmi scodinzolando.

25 ott 2006

“Freedom is not free.”





“Freedom is not free.” Parole che fremono dentro di me mentre cammino intorno a un piccolo lago chiamato Tidal Basin a un passo dal fiume Potomac. Gli alberi sono bassi e carichi di foglie rosse, gialle e marroni. Autunno che già sta esplodendo. Come dentro di me cerca di esplodere il significato di queste quattro parole. A me che avevano insegnato che la mia libertà è un dono dato da Dio, mi ritrovo davanti a uomini che sono morti per la libertà. Per la mia? Non certo per la loro, costretti ad essere rappresentati da statue di metalli imprecisati, scolpiti da imprecisi scalpellini.
Torno a casa. Metro. Un tossico preferirebbe scendere dentro la galleria. Sbatte i pugni sulla porta. “Hallo, hallo!” Urla. Nessuno si preoccupa più di tanto. Un uomo sposta la sua bicicletta. Due donne dietro di me parlano male degli italiani. Una nera di origini imprecisate e una tedesca. Io faccio finta di niente.
Scappo via velocemente dalla stazione. Sfondo di film americano con sparatoria e una macchina che vola giù dalle scale. Scale mobili. Lunghissime. Decido di camminarle. Una roscia è parallela a me, anche lei cammina. Alla mia stessa altezza. Alla mia stessa velocità. Mi fermo per frugarmi le tasche alla ricerca dell’orario degli autobus. Anche lei si ferma. La guardo e rido. Fa finta di niente. Riprendo la mia salita e così lei. La lascio passare avanti a me. Prendo un’altra strada, senza però non dedicare un attimo all’analisi di un sedere americano.
“No freeman shall be taken, imprisoned,...or in any other way destroyed...except by the lawful judgment of his peers, or by the law of the land. To no one will we sell, to none will we deny or delay, right or justice.”
La terra della giustizia. Degli enormi edifici finti. Degli edifici cavi. Dentro la maestosità del Jefferson ci sono i bagni e un gift shop. Jefferson è nero. Cioè lui è bianco, ma la sua statua è nera. Jefferson è morto. Oddio. Un attimo di panico. Vado a pisciare sotto, nella lobby del Memorial. Ogni memorial ha una lobby? Vado a pisciare. E mentre piscio penso. Questi sono tutti morti. I soldati, i presidenti. Da qualche parte c’era anche una iscrizione sulle donne. Morte pure loro. Questo è un enorme cimitero per la memoria. Questi sono monumenti morti. Ma morti per quale motivo?
“No person shall...be deprived of life, liberty, or property, without due process of law.”
Guardo fisso una ragazza che mi viene dall’altra parte lungo la sponda di questo lago finto americano. Per qualche secondo dimentico che in queste terre non sono abituati ai romani guardoni. Ai romani che non lasciano passare neanche una donna. I Romani che hanno conquistato tutto il mondo conosciuto. Vorrei gridarlo per un momento. Ma sto guardando una ragazza. Ha una guida in mano. È una turista. Un barbaro. Chissà come ci si sente a diventare da conquistati a conquistatori. Ripenso alle due donne che insultavano l’Italia nella metro. Loro, che non appartengono né al vecchio né al nuovo continente, hanno capito una cosa che io ancora fatico a capire.
“We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness.”

24 ott 2006

US CITIZEN


Un piccolo regalino per te!!!!
L'avrò catturato? Rimarrà vivo due mesi?