16 mag 2006

Questa è una di quelle lettere che non si leggono velocemente. È una di quelle che stampi e te la porti dietro. Magari sei in macchina con qualcuno che guida. Silenzio per la fatica del giorno. Guardi fuori dal finestrino e tiri fuori quel foglio che hai piegato in quattro. Finalmente hai qualche minuto per leggere. Oppure te la porti dietro appena stampata. La leggi al tavolo mentre fai colazione. Dopo che hai raccolto le cose che ti piacciono di più dal buffet dell’ennesimo albergo. La leggi mentre giri il cucchiaino nella tazza.
Domenica 14 maggio. Arrivo di tappa: Passo Lanciano. Subito nella testa mi si è aperta una voragine di pensieri. Di ricordi. Un nome improvvisamente riapre un mondo di passeggiate, di salite. Di montagne. Avevo una quindicina d’anni quando passavo alcuni giorni d’estate a godermi l’aria buona in quei boschi. Passo Lanciano. Non posso non andare. Conosco quelle curve come le scale di casa mia.
La domanda che puntualmente ti viene posta mentre prepari lo zaino è: “Perché ci vai?” Perché fare quattrocentocinquanta chilometri e passa tra andate e ritorno, arrampicarsi per una lunghissima salita, solo per vedere “dieci secondi di tappa”? La risposta prima di andare è difficile. Ma quando torni diventa facile. Non ho fatto tutta la strada per vedere dieci secondi tappa, ma per urlare a pieni polmoni: “Vola Falco!” E dura molto meno di dieci secondi. Per quell’istante in cui Savoldelli è al massimo dello sforzo e sembra aver sentito. Sembra essere contento per un solo istante. Ecco perché.
A colazione mangi qualcosa, ma non troppo. Poi ti metti in macchina. Inizia il viaggio. Inizia sempre qualcosa che ti aspetti ma non conosci e non sai questa volta come arriverà. Cosa succederà. Con chi chiacchiererai per ammazzare l’attesa. Con chi scambierai opinioni. A chi urlerai per sapere i risultati delle partite. Qualcuno si girerà e ti dirà: “il Falco è in fuga, è solo, ha staccato tutti.” Questo immagini mentre l’asfalto dell’autostrada scorre sotto la tua macchina.
Inutile dilungarsi sul resto. Tutto si riduce a quando i corridori arrivano. Mi sono piazzato ai duecentocinquanta. Per un motivo molto semplice. Ho pensato: “quando guardo le tappe, chi invidio di più?” Mi sono piazzato ai duecentocinquanta. Abbastanza vicino all’arrivo da vedere chi alza le braccia. Abbastanza vicino alla curva da non capire subito chi sta arrivando. Abbastanza vicino alla curva da sperare che la voce sbagli e sia il Falco a spuntare. Dal lato stretto della curva. Perché i corridori si avvicinano per tagliare. E posso far sentire la mia voce.
Vola Falco.
Perché poi chi se ne frega di come è arrivato. Era là a un metro da me. Io ero felice mentre facevo la strada a piedi per tornare a casa. Mentre m’infilavo nei sentieri di montagna per tagliare la strada principale. Chi se ne frega. In fondo sono felice che Basso abbia vinto. In fondo sono felice di aver visto i corridori. Anche quelli che hanno fatto più fatica. Di aver visto le ammiraglie. I giornalisti. La gente. Di aver respirato aria.
Mentre sei in macchina. Spunta uno striscione con scritto arrivo. Nell’aria. Sospeso al nulla. Alzi le braccia. Hai vinto. Hai vinto con Basso. Hai vinto col Falco. Non prendetemi in giro. Non sto dicendo che Basso ci rappresenta tutti o cose così. Io tifo con tutto il mio DNA Paolo. Ma la strada che ho percorso. La fatica per salire in cima e per tornare indietro è pari a quella dei ciclisti. Quando entri a casa. Mangi e crolli a letto.

Ivan se hai uno sponsor sulla maglietta è perché anch’io faccio la tappa, la prossima volta regalami il cappellino!

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