3 mag 2006

Quattro ore seduto su una sedia guardando quel maledetto telefonino. Ho sempre avuto la convinzione di poter percepire attraverso le onde del mio cervello quando un cellulare sta per squillare, ma se fosse così avrebbe dovuto suonare almeno cento volte. Quattro ore. La magia sta dietro a due occhi azzurri. Anzi, dietro a due occhi azzurrissimi. Di quel colore dei mari tropicali. Che vedi il fondo, ma sai perfettamente che l’acqua è di quel azzurro.
Ci sono cose che pensi possano trasformarsi in soluzioni e invece si ammucchiano insieme in una piccola catasta, come i vestiti sporchi nella mia stanza. Prendo questa catasta e la butto nel cesto dei panni. Prendi la soluzione/problema e la scarichi nel cesso. La guardi girare e invece rimane a galla come il mozzicone di una sigaretta. Vabbè ci penserai.
La posizione di chi guarda un cellulare è con la testa fra le mani. Ogni tanto tocchi un tasto, il video si accende e tu fuggi come se ci fosse un serpente. Ritrai la mano velocemente. Non vuoi toccare troppo. Con quella atavica sensazione che la tecnologia stia sempre per esplodere. Che stia sempre per avvenire un danno imminente che tu non fai altro che accelerare.
Quattro ore. Sono un tempo lunghissimo e poi neanche così lungo. È il tempo che un treno ci mette per portarmi da Roma a Bologna o a Pescara. È il tempo che ho passato seduto dentro una stazione ad aspettare la mia coincidenza perduta per andare a Trieste. È il tempo che ho atteso in assenza di vento sdraiato a largo su di un catamarano. Quattro ore. Non è neanche il tempo che passa tra la prima e l’ultima ora a scuola. Il tempo del tema della maturità. Non è poi così tanto. Non dimenticate occhi azzurri e un sorriso. Una risata.

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